martedì 17 luglio 2018


Dopo eoni torno a scrivere due parole, ispirato dai momenti non proprio felici della vita e dai recenti Eroi alternativi ma - a mio parere - quanto mai realistici dell'antologia "N di meNare" presentato da Ignoranza Eroica e Nerheim cui hanno contribuito amici scrittori che mi hanno sempre incentivato sia negli scribacchi che nella pittura, come l'oramai famoso Alessandro Forlani, eterno maestro di lettura, storia e modellismo.




Gioia






Dicono che sia un tipo forte, ma di forte ho solo il vino che riesco ancora a ingollare. Si una volta, forse, quando avevo una donna, una casa, e sogni e speranze. Oggi sono qui da solo davanti a un pezzo di carta, mezzo ebbro dell’alcol d’un succo d’uva di cattivo fermento che inebria la mia testa, in un sudicio ripostiglio dell’unica bettola che riesco a permettermi.
L’azza sta posata sulla branda, il coltellaccio è messo lì davanti sul tavolo. L’acciaio illuminato dal riverbero debole dalla mezza candela di sego che le poche monete m’hanno concesso. Le armi, sì, loro le curo…le amo, le lucido, le sfrego come il mio batacchio nelle notti solitarie, ché manco una puttana posso permettermi. Ma sono affilate, tremendamente affilate ché la cote l’ha regalata mio nonno e non costa nulla, e il tempo non manca quando cerchi lavori sporchi; e allora affili le lame. Ci metti la cura che avresti dovuto mettere nella tua vita ché non finisse nella merda che è ora. Sventrare per denaro è la strada facile: niente domande, niente rammarico. Il nemico è di qualcuno, tu manco lo conosci. Gl’infili il ferro nell’addome, lo sgozzi veloce per pietà e ti guadagni la paga per comprarti la pagnotta…porcoboia!...sono sbronzo, vaneggio…Merda il boccale! Lo ribalto sui fogli di quel vecchio fichetto del cazzo che vuole che l’ammazzi l’amante della sua donna…il foglio col ritratto della vittima assorbe il vinaccio, peccato, l’avevo pagato i due soldi che lo avean fatto bono per la serata. Piglio la carta tinta e molla, i tratti a carbone son altro che una chiazza indistinta. Chi porco lo riconosce più quello da accoppare adesso! Vabbè, lui m’ha detto che l’altro sarebbe passato sotto il ponte del Foglia all’una di notte. Mi metto lì poco prima e poi ammazzo quelli che ci capitano sotto nel giro di mezz’ora e via. Probabilità alta di riuscire, certezza di guadagni. Due spicci, ma si tira a campare. Tanto gli amici non lo sanno, no, non sanno quello che faccio, e manco mamma e babbo, poretti, che si sbattono sui campi. Loro pensano che io sia un milites, di quelli valorosi tutti fronzoli e pennacchi. Poveri, ci hanno tante di quelle tribolazioni che manco mi sogno di farli preoccupare per me. Quando ci vado da loro, di rado, gli porto una fiasca di vino e gli racconto di come è bello quel posto o quell’altro, che ho posti e tanti da raccontare, ché nelle mie vite ci ho girato parecchio il mondo in posti di merda che son da raccontare. E loro son contenti ché vedono che ho le armi lucide e belle e allora pensano che sono un bravo milites. Bravi mamma e babbo, tranquilli ché io crepo da me e manco lo verrete a sapere e ci pensa il fiume a farmi il funerale così risparmiate i denari.

E’ mezzanotte, tocca andare ad sbrigar le faccende. Smetto di scrivere ché manco lo so perché ho iniziato ma il vino forte ogni tanto fa di ‘sti giuochi. Deimaldestri quanto sono stufo. Adesso poso la penna e vi racconto quindi stare all’urecchia che le cose dette non rimangono scritte.
Mi infilo le brache – si bona, cazzo volete, si sta comodi nella bettola col petenecchio al vento tanto mica ci è la suor castità qui dentro! – e mi metto quelle boia di brache rinforzate e il farsetto imbottito che solo déi sanno quanto ti fa sudare solo a indossarlo. I calzari con la punta di ferro come ciabatte. I guanti di scorzone con piastre di piombo stan’ comodi come mutande fresche, mi ci riesco a grattare il culo con quelli addosso oramai.
Mi lego il coltellaccio col fodero alla cintura, agguanto l’azza. E’ bella perché è ignorante. Ricordo ancora quella notte a Pizosa quando con mezza dozzina di mazzate riuscii a far schizzare le viscere a quel fighetto cialdrese sotto la sua fottuta corazza a piastre. Piglia questo merda ciadrese, pensavo. Ridevo mentre picconavo il ventre e aprivo il ferro come burro col ferro caldo. L’azza – diobono - che arma per meNare forte che è! solo noi italioidi ce la potevamo cagare dalla mente.
E allora ‘orcazozza andiamo a guadagnarci la pagnotta, o la fiasca, anzi meglio questa. Forse anche ‘na battona ma quella ti spolpa di fatica e non la magni mica…tranne che in certi posti che poi comunque ti rimane la fame perché è solo la broda. No forse è meglio la toppa sulle brache ché ammazzare la gente che ti si vede la chiappa non è mica cosa bella. Poi a babbo e mamma cosa gli fai la figura del milites gajardo. Si forse è la volta buona che col soldo mi ci faccio le brache nuove, e che magari ci compro una macina. Il cicisbeo che m’ha ingaggiato è uno che ci ha la spocchia seria, di quelli che indossano la gorgiera e mettono le salse all’uovo sulla focaccia coll’uovo. Ce n’ha di soldi ‘sto patacca che le donne le potrebbe avere a ogni sera una diversa. Ma lui ci ha la cotta per una puttana che la crede sua promessa, anche se lei di suo mestiere se ne passa uno a sera…e fosse anche solo uno che per lei è lavoro, mica gioia.
Vabbè chissenefrega, io ammazzo, l’altro paga, tutti felici.
La cappa è lì appesa alla porta di legno, la strappo, la indosso. Esco.
Ci è casciara in locanda, tra le luci calde che illuminano il legnatico di sotto con tavoli, panche e gente molesta che beve e ciarla. E’ l’immagine della taverna, di quelle che ti raccontano nelle storie da bambino, quando fuori è freddo e allora ti immagini ‘sto posto che fa caldo col focolare e le lucerne, con l’oste simpatico e pasciuto che ti dà da bere boccali di birra e tutti che cantano giocano ballano nei tavoli accanto al focolare.
Però non ti raccontano del puzzo di piscio, di alcol di vomito e di mutande non lavate. E manco delle bestemmie, delle imprecazioni e del sangue che scorre quando uno bara o non paga il conto. E allora tutti che scattano a difesa dell’oste che s’è fatto risoluto mannaia alla mano contro il manigoldo taurino che per risposta agguanta una manéra. Ma gli altri mica che son bravi a difender quello più debole, sé, è solo ché l’oste è l’unico a sapere dove tiene le sue scorte di vino buono e allora conviene averselo amico e vivo.
E’ questa la storia che attraverso scendendo le scale di legno che suona chiocco. Ci è la Bella giù in fondo al bancone, lei è bella non solo di nome. E’ uno splendore, il mio amore irraggiungibile. Sta con uno che non capisco il perché che per me non c’entra una cippa con lei. Però è così e lei è una donna tosta ché le piace il ruspante e pure le armi, e le piace essere forte e mica farsi mettere i piedi per terra. Fa la zoccola ma solo di nome perché è lei che sceglie i suoi e si tiene tutto il malloppo. Non l’ho mai avuta, mi fa rispetto. Ma chiacchieriamo un sacco. Si, ‘orcoboia, ne sono cotto! Ché lo so che è lei la mia donna ma non ci ho il coraggio di dirglielo che mi piace ché son uomo d’onore in fondo, e se una donna sta con uno non si fa morte al decoro e non s’offende la scelta di lei e ammanco l’onore di lui. Ci spero, un giorno forse. Non mi ci faccio manco le seghe che allora capisci che è amore vero…
Son fermo anche troppo a guardarla. Lei si gira, io mi volto. Apro la porta. Esco fuori.

Fa freddo deicagnacci! Un botto! Ha piovuto e ci è la nebbia, che tempo di merda, autunno perfetto.
Meraviglioso. A me piace. Tutti schifano camminare nell’aria umida ma a me gusta un sacco ché ti aiuta a pensare.
M’avvio lungo il passeggio del fiume che scorre placido, tranquillo, poco distante dall’argine. La nebbia ottenebra tutto ed i vacui aloni delle lucerne ad olio delle vie principali si riflettono nella foschia e proiettano ombre macabre lungo il viale. Il fiume manco si vede…anzi, non solo quello, invero si vede po’ che niente, e men che meno si sente qualcosa. E’ tutto silenzio.
L’eco di dodici rintocchi e mezzo rompe la quiete, e la sagoma scura del ponte sfonda la morbida bambagia nebbiosa ed appare sfocata lì davanti.

Mi sistemo dietro le botti marce dei pescatori, tra le nasse rotte e le reti fraide che sanno di pesce marcio. Il mantello scuro mi rende come il resto, uno scadente ammasso di utensili da riparare. E attendo.
Ti scappa sempre da pisciare quando aspetti…oh! puoi avere anche diec’anni d’esperienza in agguati e missioni omicide e comunque, quando te ne stai nascosto ci hai bisogno di mingere che manco avessi bevuto un otre! Boialadra, me la faccio nelle brache, maledetto vinaccio acido annacquato!
Canta la civetta.
Bell’animale. Simpatico, allegro, sfigato…un po’ mi ci riconosco. Tutti pensano che porti sfortuna ma lei fa quello che fanno tutte le creature notturne, sopravvivono uccidendo ciò che schifa agli altri animali, sorci, rane, cavallette, sì che di giorno al sole tutto sia più bello. Un po’ quello che facciamo noi mercenari. Uccidiamo di notte, togliamo di mezzo quello che schifa ai messi bene, così che di giorno sia un mondo più pulito mentre lo sanno i pesci e i vermi cosa è successo. E lo sappiamo anche noi…noi che per il soldo facciamo ciò che rende felice i pochi che possono permettersi di rendere la loro vita migliore, mente gli sfigati, quelli che faticano nelle cave, loro chi se ne importa se muoiono o vengono ammazzati. Chi se ne importa di quello che sfondi nella corazza per prendere Faneria o di quello che sgozzi per arrivare ad ammainare lo stendardo di Piumabella. Chi se ne importa di noialtri.
No, chi ci ha il soldo ci da foraggio, come fieno a mungane che allora brucano senza farsi domande e brucano e basta…Suona un rintocco. E’ l’ora.
Fa freddo.
E’ umido.
Boialadra! basta prendere ‘sti incarichi notturni, meglio il fegato gonfio dall’alcol rancido della bettola che il dolore degli ossi per la ruggine delle giunture, ma che che boia….ecco i passi! Lui, sicuro!
E se non è lui, va bene lo stesso: posto sbagliato momento sbagliato!
La sagoma esile appare nell’umida torbida arancione delle lucerne lontane.
Gli balzo addosso da dietro, il coltello, svelto, premuto alla gola.
Non sono una merda mi ci assicuro che sia quello giusto, tanto non mi vede in faccia.
“Ti scopi la Gioia?”
Lui non risponde, è agghiacciato. Gli scorro lento il rasoio sulla gola da far stillare il sangue e sentire quel dolore piccolo e acuto come quanto ti tagli con la carta i polpastrelli, ma sulla gola. Ripeto la domanda, risponde affannato.
“Si! si, dioboni si! Scusa! Non lo faccio più! Lei…lei mi vuole bene! Mi racconta le cose che gli fa l’altro, quello che la vuole solo per lui…gli son d’aiuto…no no non l’ho fatto apposta….”
Si dilunga in scuse. Racconta, solite storie della gente alta: lui ha i soldi, la sevizia, vecchio, bavoso, lei giovane e bella, fragile, strappata di forza per sodalizio d’affari tra magnaccia…di quelle storie da racconti davanti al fuoco dove poi arriva il cavaliere, uccide il mostro e libera il suo vero amore.
Ma lui è un garzone di bottega. Semplice, umile, giovane, idiota. Non avvezzo alle armi ma solo alla farina e al massimo alla pala. E io ci ho già metà dei soldi in scarsella.
Prega, supplica, si piscia addosso ma tanto chissene, anche io l’ho fatto prima.
Lui lo fa per amore vero ché Gioia è una gioia per il cuore. Smielato? si, troppo. Mi ricorda quando ero davvero un milites ed amavo lei da impazzire. Al fronte ci andavo per mettere il gruzzolo da parte per sposarci e trovare un posto migliore in cui vivere. Poi lei lo ha trovato il posto migliore. Con un altro.
“Ehi mezzasega” gli dico “Ohi?!”.
Gli mollo uno scossone, lo libero, gli punto la lama al petto ché non fugga via.
Il riverbero cela i nostri volti, i suoi occhi terrei si vedono anche al buio, come i cavalli quando schiumano e ci hanno il bianco delle orbite che lo vedi a miglia di distanza.
“Te ora mi stai a sentire, ché sei bravo e giovane e che forse ci hai un po’ di speranza a sta merda di vita. Basta ascoltarti la verga! Ascolta invece la testa! Lei ci ha il soldo, te no. Te ci hai solo che sei bello e il pistello che funziona, ma te sei un fornaio e manco un ferraio che può averci carriera. Te sei solo il sollazzo. Sei giovane e puoi farcela a crescere meglio. Solo che non stare dietro a quello che non puoi raggiungere perché quello che non è la tua strada non t’appartiene e ti spolpa nelle energie e alla fine arrivi spento e poi lei ti molla perché le tue braci non ardono più, capito!?”
Lui pare annuire, affanna, ma ascolta. Proseguo.
“E allora ascoltami, io non t’ammazzo. Non lo so perché, però te sei bravo, lo vedo. Sei come tutti noi, caduto nel tranello della puledra bella e disponibile. E io ti lascio andare solo se mi giuri qui ora, sulla tua vita, che di retta la testa e non il tuo arnese da ora in avanti.”
“ma io l’a…” balbetta incerto.
“E no cazzo!” l’interrompo lesto “così non ci siamo! Sta zitto! Te sei ‘nnamorato della sua buchetta umida ché adesso siete giovani, ma poi lei è di alta classe e vuole chi ci ha il maniero e adesso solo il vigore della trasgressione. Trova il tesoro in chi ti vede prezioso nelle manate di farina sulla pagnotta. Fai la gavetta e apri un tuo mulino se ti piace, e allora lì sarai ricco di grano e pane e di chi ti vuole per ciò che te sei davvero!”
Il respiro si fa meno affannoso. Vado al sodo.
“Adesso senti: il tuo lavoro è fare il fornaio. Il mio è ammazzare, ammazzare te!”
Lui, allarmato, tenta la fuga ma io gli stringo svelto la camisa umida di nebbia e sudore freddo.

“Statti buono e sitto! Non t’ammazzo, ma siccome sei nella merda tocca che ci accordiamo”
Svelto gli afferro la mano e la lama rasoio gli trancia il dito medio, di quello che aveva il dono anulare di lei. Soffoco l’urlo col guanto, lo stringo, l’arto leso sulla camisa ché si tinga del sangue.
“Ci è un prezzo da pagare per ogni stronzata. Questo è il tuo…con qualche omaggio. Ora sparisci, lasciami la tua camicia sporca che mi serve da prova insieme al tuo pezzo, Tanto te sei giovane e il freddo ti fa un baffo”.
Si cava la veste, io avvolgo il moncone negli stracci e armeggio nella scarsella.
“Tieni questi, si prendili e non rompere la cippa e sparisci da qui”.
Gli metto tre soldi nella mano sana e con una pacca sul culo lo mando via.
“Vai mezzasega, scappa e vedi di non farti più vedere qui ché se ti rivedono domattina, prima ammazzano te e poi me, ma se questo succede, ad ammazzarti prima, quello son io”.
Lui si getta nella nebbia. Io mi gratto il culo. La civetta lancia un altro richiamo.
Stasera ho perso tre soldi. Domani, se riesco a puntare il dito sulla situazione, ne piglio quattro…ho un soldo di margine incerto. Godiamoci la sorte: mezza fiasca di vino in taverna chiacchierando con Bella sono una giusta ricompensa.

martedì 27 dicembre 2011

Lento arrancare


Visto che ora ho un blog anche io, faccio un re-editing di un breve e intenso racconto che scrissi due anni or sono ispirato dall’ambientazione di Tristano di Alessandro Forlani: un cupo quadro familiare in una casa di contadini “altrove nel Regno”.


MONOTONO LENTO ARRANCARE



Mi fanno male le gambe.
Dolori relitti d'una giornata di duro lavoro, lo stesso, da anni zappare monotono lento arrancare nella vana speranza che la terra sterile e stanca dia frutti migliori dell'anno passato.
Mi siedo, merda la schiena! Duole anch'essa. Ventitre anni già vecchio.
Dentro un marcio che cresce ogni giorno in cui vivo respiro mangio dormo lavoro in questa merda di Paese.
La porta si apre di botto.
Alzo lo sguardo con gesto flemmatico monotono lento di chi già s'aspetta cosa accada. Entra sbuffando mio fratello che ha appena riposto i suoi attrezzi nella baracca.
Tredici anni, un vecchio anche lui.
Prende la fiasca di vino dalla dispensa. Sbuffando la posa con leggerezza di bue sul tavolo al mio fianco.
Strascica una sedia imprecando. Ha voce da bambino ma di bestemmie ne sa già quante un soldato. Cazzo, se nostra madre fosse ancora viva gliele darebbe in quella crapa vuota, ma tanto, con lui è come coi Potenti, non serve a nulla incazzarsi, tanto continuano sempre su quella merdosa strada.
Prendo la fiasca trangugio un sorso... che schifo! E' aceto! Mio fratello ne beve un po', ingoia con una smorfia, fa schifo anche a lui. Gli brucia la gola. Per il vino buono ci vuole l'uva buona, le botti nuove e tanta dedizione. Ma tanto a che serve fare il il vino buono: te lo bevi, poi ne offri un sorso agli amici che alla fine sono avidi e invidiosi come tutti e così la voce si sparge “quel è ‘l vin bon” e te lo comprano magari, e ci fai i soldi magari, ma poi vien fuori che una Becera viene a sapere la storia e quelle vecchie vacche dalla figa più acida di 'sto cazzo di vinaccio spifferano agli Avvilenti e ben presto ti ritrovi senza nulla.
Il vino è rancido, fa nulla, l'importante è che ci si possa far la sbornia.
Mio fratello rutta, alza lo guardo, i suoi occhi sono lucidi, è già ebbro.
Mi alzo dalla sedia per cercare qualcosa da metter sotto i denti. Niente, la dispensa è vuota porcatroia, un'altra sera senza cena.
Torno al tavolo.
Mio fratello, con goffi movimenti, infila la mano in tasca e tira fuori i dadi. Lo sa che è proibito, è per questo che ci gioca.
Puntiamo tre sassi a testa che di soldi non ce n'è. Lancio i dadi, vinco, che culo. Mi si affaccia uno spiraglio di gioia, un pensiero, magari la fortuna ha preso a girar dalla mia parte, magari quest'anno il raccolto sarà buono e così ci faccio un pò di soldi e ci compro la boticciola per fare il vino quello buono così lo vendo e ci tiriam su da tutta 'sta merda di vita e magari... No, non si può! Lo dicono sempre Loro, non si può! Tiro i dadi ancora una volta, perdo.
Meglio così.
Monotono   lento   arrancare.


Alessandro Allegrucci

sabato 24 dicembre 2011

Blaster Worm 22

 

I

La sega circolare tranciò di netto la gamba ma anziché carne, sangue e ossa, l’amputazione rivelò un’accozzaglia di ferri, ingranaggi e tubi da cui pompavano liquami oleosi che s’espandevano in una chiazza sul pavimento.
Un braccio robotico con una lama ricurva e aghi sonda apparve in prossimità del capo e iniziò ad aprire il cranio…

…Riders on the storm
Riders on the storm
Into this house we're born
Into this world we're thrown
Like a dog without a bone
And actor out on loan
Riders on the storm…

La neurosveglia quella mattina trasmetteva i Rolling Stones. Era curioso sentire come andassero ancora di moda le canzoni di Mick Jagger dopo più di un secolo dalla sua scomparsa.
Albert si riprese dall’incubo e con un grugnito spense il trasmettitore psichico e attivò l’oloradio che come tutte le mattine trasmetteva il notiziario. La cordiale voce di Steve Van Leeuwen dava il buongiorno con rincuoranti notizie riguardanti le recenti sconfitte delle truppe gliesane e l’incontro fra i vertici della Terra e quelli di Kepler.
Smantellato un altro centro d’assemblaggio robot clandestino a sud di Rotterdam. Più di trenta i cyborg arrestati che sono stati poi interrogati dal N.A.R. ed infine inviati al centro di deassemblamento e smaltimento cibernetico.
Cazzo che notizia! pensò Albert trenta cyborg!…seh…al massimo quattro, si e no, quelli operativi, gli altri...un ammasso di rottami arrugginiti. Lui in quel centro a Rotterdam c’era stato, come agente operativo del N.A.R. del quale faceva parte da più di dieci anni. Lui, come tutti, odiava i robot dopo la Ribellione, e come centinaia di altri suoi coetanei aveva fatto domanda di arruolamento al Nucleo Anti-Robot che operava per il controllo della diffusione di androidi.
Albert si alzò dal letto e l’oloradio seguì l’uomo mentre si spostava per l’appartamento proiettando sullo schermo virtuale il volto sorridente del giornalista.
“Caffelatte e brioches”
“Si signore” la risposta meccanica dell’Homhelper3000 confermò che il comando vocale era stato recepito prontamente .
Albert si sedette al tavolo proprio mentre al centro di questo s’apriva il distributore alimentare da cui apparve il cabaret con l’ordinazione.
Vivere ogni giorno nell’ironia d’aver paura di ciò di cui non si può fare a meno rifletté fra sé l’uomo mentre addentava il croissant solo perché ad un certo punto gli abbiamo iniziati a progettare a nostra immagine e programmati per autoassemblarsi e prendere coscienza di sé, e solo per levarci il lavoro sporco di dosso...ed ora li temiamo. Bella storia.
Trangugiò il caffelatte. Buono.

Mezz’ora dopo Albert era seduto sul jetrain che sfrecciava diretto verso la centrale del N.A.R.
La linea percorreva il terzo livello della città, quello più sgombro di edifici e dagli oblò del razzo si potevano ammirare le cupole dei palazzi stagliarsi contro l’azzurro artificiale della capsula che ricopriva la città. Quel giorno il Servizio Meteorologico aveva deciso per bel tempo.
Più in basso il Secondo Livello, o livello Terra, era un intricato dedalo di case, casupole, megacondomini e piani bassi dei palazzi in cui si svolgeva la maggior parte delle attività cittadine mentre ancora più sotto, nel sub-livello, s’accumulavano come in una fogna gli escrementi della società. Il livello sotterraneo era pieno delle baracche dei reietti, dei non-umani, dei disoccupati e dei criminali. Ma era anche il livello in cui l’economia girava meglio: narcotraffico, cybertraffico, prostituzione interplanetaria, mercato di organi umani e non umani, tratta di schiavi e arruolamento mercenari.
Ed era il livello in cui si rifugiavano gli androidi.
Perciò Albert conosceva bene le abitudini, il gergo e il modo di fare di quella gente, e in fondo non gli dispiaceva troppo frequentare quel posto così alternativo e stimolante se non fosse che ogni tanto si finiva per essere il bersaglio di qualche pistola a schegge o il pungiball di qualche ruffiano arturiano.

*  *  *

“Ehi, Al, Al!”
L’agente Peter de Vries si fece incontro ad Albert mentre questi tentava di raggiungere il suo ufficio e gli si parò davanti col volto grasso reso umido e paonazzo dall’emozione.
“Buongiorno Pet, cos’è ‘sta foga, t’hanno teletrasportato via la moglie?”
“No Al, guarda qui, pezzo originale del 2011”
Gli mostrò un vecchio cellulare, un pezzo d’antiquariato, simile ai molti altri che andavano di moda in quegli anni. Albert non si capacitava del perché la gente fosse disposta a spendere tanti soldi per un aggeggio così inutile: non effettuava chiamate interplan e non aveva transfer olografici. Inutile!
Ma a Peter piacevano, li collezionava da un sacco di tempo e ne aveva tantissimi “un Samsung B7722 Star Duos dual SIM, touchscreen, Wi..”
“Ehi Pet, lo sai che non me ne frega niente! E tienimelo lontano! Quei cosi mi fanno venire l’emicrania. A me e al capo, che se te lo vede te lo sequestra!”
“Venire l’emicrania…te lo sequestra..” lo canzonò Peter “tu e il capo non apprezzate l’arte tecnologica di inizio millennio, avevano un design accattivante!” rimbeccò offeso.
“Prima o poi quei cosi ti rivolteranno il cervello, Pet” rispose Albert “e io sono troppo affezionato a te perché mi assegnino un altro collega”.
“‘Giorno Al” Lucinda s’affacciò al box sventolando un mazzo di scartoffie “ho una chicca mattutina per te” disse facendo l’occhiolino.
“Fammi indovinare? Un’ altro pazzo vagabondo che dice d’essere un robot?”
Lucinda gli porse le schede con un sorriso complice. E’ sempre bellissima pensò Albert e non è invecchiata di un anno da quando la conosco. Come me del resto rifletté non senza provare un pizzico d’orgoglio. Effettivamente Albert portava bene i suoi cinquant’anni, così come Lucinda portava bene i suoi quarantacinque. Aveva ancora la pelle liscia e candida come quella d’una ventenne. Sicuramente merito delle creme rigeneranti per lei…e dei buoni geni per me si disse Albert ringalluzzendo ancora il suo ego.
“Spiacete di deluderla agente Brouwer ma questo è un caso serio” lo rimproverò Lucinda dandogli una lieve pacca sulla spalla. Un fremito percorse la schiena di Albert che non rispose alla provocazione. Chissà perché, quando Lucinda lo toccava o gli stava semplicemente accanto lui si sentiva strano, come se una calamita dello stesso polo lo spingesse oltre il suo campo magnetico.
“Grazie Lucy, gli darò subito un’occhiata” interloquì serio Albert.
Lucinda spense il sorriso vedendo la serietà dell’uomo e usci dal box.
“Quella femmina è una bomba sexy!” s’intromise Peter quando fu certo che Lucinda fosse abbastanza lontana da non sentirlo.
“Peter, sei sposato” lo riprese Albert.
“Ehi, mi basta una moglie bisbetica a casa, non me ne serve un’altra bigotta in ufficio!”
Albert lo ignorò prese ad analizzare il rapporto “Segnalazione di sospetto androide” a nome di Karl Dijkstra”. Almeno l’intestazione della cartella non era cosa nuova. Spargendo i fogli del rapporto sulla scrivania Albert prese quello relativo al sospettato Valten Dekken uomo bianco trentenne capelli biondi Osakastraat Rotterdam Noord-Wets Distretto 413. La denuncia riportava che il Sig. Dijkstra segnalava rumori molesti provenienti dall’appartamento adiacente, quello di Valten, e che il ragazzo aveva la strana abitudine di accogliere figure poco raccomandabili e dall’aspetto troppo abbiente per il suo status in piena notte. Inoltre il Sig. Dijkstra puntualizzava che il suo multivisor , come pure quelli degli altri vicini, avevano cominciato a perdere il segnale da quando Valten era venuto ad abitare nel loro condominio. In ultimo veniva sottolineato anche che il sig. Dekken non rispondeva mai ai cordiali saluti che il Sig. Dijkstra non mancava di porgere quando si incontravano.
“Va bene Peter, credo che per oggi ti salverò dai veleni che ti cucina tua moglie e ti inviterò a una romantica ispezione”.
“Al, è sempre un piacere giocare a guardia e robot con te” ammiccò Peter.
Entrambi si diressero verso il magazzino del dipartimento per equipaggiarsi con le corazze antischegge e le pistole a ioni poi, dato che il mandato di perquisizione era già pronto, presero uno degli hovercraft della N.A.R. e s’avviarono per le strade del livello Terra diretti al Distretto 413.


II

L’edificio era il classico complesso del 2080 con piccoli appartamenti accatastati uno accanto all’altro in modo da sfruttare ogni minimo lembo di superficie abitabile. Le finestre assenti ai piani inferiori erano state sostituite dai più funzionali pannelli olografici filtranti che all’interno proiettavano le immagini dei bei panorami di Saturno o di Urano e all’esterno fungevano da filtro per le polveri sottili inquinanti che avvelenavano l’aria del livello Terra.
Condutture del ricircolo dell’aria e ascensori aspiranti decoravano con linee geometriche le altrimenti spoglie e lugubri pareti del condominio.
Gli agenti accostarono l’hovercraft vicino a un distributore automatico di ciambelle venusiane e si avviarono verso il palazzo mentre il robot parcheggiatore collocava l’auto al secondo ripiano del posteggio veicoli.
Il livello Terra brulicava di attività: centinaia di negozi, bistrò, bar, cambiavalute, agenzie stellari s’aprivano sui megamarciapiedi percorsi da migliaia di persone a qualunque ora del giorno. Le insegne pubblicitarie di locali e casinò brillavano sopra i camminamenti e proiezioni tridimensionali di agenti pubblicitari comparivano fra la folla per promuovere prodotti alimentari, cosmetici o accessori tecnologici.
I due agenti si unirono al denso flusso di pedoni che attraversavano la strada mentre i deflettori di traffico permettevano ai veicoli di continuare a transitare deviando la loro traiettoria in una curva parabolica sopra le teste dei passanti indifferenti.
Arrivati all’ingresso della palazzina s’avvicinarono all’ascensore aspirante.
“Valten Dekken, decimo piano corridoio sette A”
Immediatamente il flusso d’aria pressurizzata aspirò i colleghi trasportandoli fino alla loro destinazione.
Il corridoio era sobrio  e nonostante avesse la stessa età del complesso si presentava in buono stato con le pareti dipinte di recente, probabilmente merito delle insistenti pressioni del pedante Sig. Dijkstra riguardo il decoro condominiale. Deve essere una vera piaga per tutti gli abitanti del suo stessp piano pensò Albert mentre procedeva a passo svelto tenendo d’occhio il numero civico affisso sopra le porte uguali e simmetriche dell’androne.
“Eccoci qui” disse Peter “ventidue corridoio sette A, Valten Dekkan”
“Abbassa la voce Pet! E attacca il breaker!”
“Al, sei nervoso?” lo interrogo Peter mentre estraeva dalla tasca il piccolo marchingegno esplosivo. Fece per applicarlo sopra la serratura ma poi si fermò voltandosi verso il compagno “e se non c’è?”
“Vorrà dire che daremo un’occhiata in giro!”
“E gli lasciamo scassinata la porta?”
“Da quando ti fai tutti ‘sti scrupoli verso un sospetto robot, de Vries?! Attacca la mina e basta!”
Peter abbassò lo sguardo e attivò il breaker poi entrambe si misero schiena al muro in attesa dello scoppio.
La mina lampeggiò tre volte poi, con una piccola detonazione, scardinò la serratura.
In un istante Albert divelse la porta con un calcio ed entrò nell’abitazione con la pistola ionica puntata. Peter dietro di lui fece le presentazioni “Agenti N.A.R., vieni fuori senza opporre resistenza! Questo è un semplice controllo!”.

*  *  *

Nessuno rispose. L’appartamento era bene in ordine con la sala spoglia di ornamenti e mobili tranne che per un grande monitor e un divano
Albert fece cenno a Peter di ispezionare l’altra stanza e il collega si mosse all’erta verso la seconda camera.
Valten era lì, seduto dietro la scrivania con la schiena rivolta verso l’agente e il volto nascosto da capelli biondi lunghi ben curati. Non si mosse così Peter si avvicino tenendo sempre puntata la pistola.
“Valten Dekken, sei sotto arresto per essere sottoposto ad accertamenti riguardo la tua sospetta natura robotica. Sei pregato di non porre resistenza e di non…” l’agente rimase di stucco vedendo che sulla scrivania era adagiata la maschera d’un volto umano accanto a barattoli di vernici e silicone similpelle e mentre Peter restava impietrito per l’incredulità, Valten si voltò mostrando il suo teschio metallico su cui erano incastrati i bulbi artificiali di due occhi umani.
L’agente ebbe la prontezza di gettarsi di lato prima che l’impulso sonico della pistola di Valten lo colpisse. Peccato che Albert non se ne accorse dato che la stazza del compagno ne impediva la visuale e venne centrato in pieno petto dall’onda d’urto che lo scaraventò a terra.
Valten scattò fulmineo verso l’uscita e Peter non fu abbastanza svelto da bloccarlo. Albert invece si riprese subito dal violento impatto e si gettò di petto su droide. Il tremendo urto rovinò a terra entrambe e i due si ritrovarono faccia a faccia per un lungo istante.
“Sei…perfetto!” sussurrò il viso robotico di Valten mentre i suoi occhi scrutavano frenetici l’agente.
Albert non rispose. Il corpo del robot adagiato su di lui non era duro, spigoloso o freddo; era morbido, come di pelle, grasso e muscoli. Non avrebbe mai detto appartenesse a un androide se non fosse stato per il teschio bionico che lo fissava intensamente.
La testa gli iniziò a pulsare violentemente e costrinse Albert ad abbassare lo sguardo. Nello stesso momento Valten balzò in piedi diretto con uno scatto verso l’uscita intenzionato a fuggire.
Il suo corpo meccanico venne catapultato oltre l’uscio quando il raggio ionico lo investì alle spalle.
Peter lo puntava da parecchio e il vapore che si levava dalla canna dell’arma indicava che il colpo era stato sparato a piena intensità.
“Tutto bene Al? Scusa, non ho tirato prima perché temevo di colpirti” disse Peter mentre porgeva la mano al collega.
Albert si rialzò da solo massaggiandosi le tempie: “Si Pet, grazie, sto bene”…a parte la tremenda emicrania…
“Vecchio Brouwer, sei duro come l’acciaio! un colpo in pieno petto e nessun acciacco”.
“Già” lo stesso Albert era rimasto stupito dalla sua resistenza. Non era la prima volta che si prendeva pallottole, raggi, cazzotti eppure un colpo in pieno petto come quello, seppur attutito dal giaccone, beh! di certo avrebbe regalato una bottiglia di pregiato whiskj alfano al suo personal trainer.
“Nulla di straordinario” aggiunse sorridendo a Peter.
Si voltò a vedere il corpo steso a terra di Valten: “Tu piuttosto, davvero un bel tiro! L’hai fatto secco!”
“Un colpo facile” rispose Peter celando a fatica l’imbarazzo per il complimento.
“Guarda un po’ che roba!” Albert si chinò sul cadavere e osservò con incredulo ribrezzo l’intreccio di circuiti cavi protesi metalliche che si aprivano sullo squarcio che il colpo della pistola ionica aveva provocato sulla schiena del robot. Dalla lacerazione balenavano piccole saette di elettricità mentre fluidi viscosi verdastri s’allargavano in una pozza inzuppando gli abiti del robot distrutto.
Il volto di Valten era grottesco senza la maschera al silicone che ne nascondeva la vera natura. I suoi occhi, privi di palpebre fissavano il vuoto mentre la luce azzurrognola emessa dal cervello positronico andava scemando finché non si spense del tutto.
“Beh! Caso risolto, dunque” sbottò Peter.
“Direi di si Pet, chiamo la squadra smaltimento e andiamo a farci una birra”
Albert prese il suo microproiettore olografico e contattò la squadra addetta al prelievo androidi. La testa gli doleva terribilmente ed era certo che la colpa quel malessere era in qualche modo di quel droide che ora giaceva spento accanto a lui.

III

Le pianure di Marte si stendevano a perdita d’occhio e i venti solari spazzavano il deserto rosso.
Albert stava lì solo nudo in mezzo a quella desolazione.
Improvvisamente davanti a lui apparve Valten. Il suo viso metallico lo fissava intensamente.
Rimasero così, uno di fronte all’altro, guardandosi senza dirsi nulla.
Poi Valten gli porse la mano.
“Fratello” sussurrò il robot.
Albert non capiva. Gli strinse la mano e vide che il suo braccio non aveva carne ma solo in insieme di ossa d’acciaio, cavi e ingranaggi.
Spaventato indietreggiò d’un passo.
Valten continuava a fissarlo immobile “Vedi te stesso” gli urlò.
Albert si guardò di nuovo il braccio muovendo quelle dita di ferro e poi s’accorse che anche l’altro arto, come pure le gambe e tutto il resto corpo non erano altro che parti bioniche unite da articolazioni metalliche fra le quali una fitta rete di capillari plastici e fibre ottiche pulsavano icori e impulsi elettrici.
Albert esplose in un grido di terrore.
E cadde dal letto.
Un sogno…solo un sogno…Albert si svegliò avvolto tra le coperte col respiro affannato e il corpo scosso da tremiti. La testa non gli aveva mai smesso di pulsare.
Era sconvolto.
Si tasto il corpo come a voler trovare lo spigolo, il ferro, il freddo dell’acciaio sotto la cute. Allora diresse verso la cucina. Serve aiuto Signore? Ignorò la richiesta dell’Homehelper3000 e aprì il cassetto dei coltelli brandendo con determinazione una delle lame e portandosela sulla coscia.
Sei un idiota Albert! Vuoi finire in ospedale per un sogno? Oppure in manicomio quando gli spiegherai il perché del tuo gesto da imbecille?
Attese un momento poi si premette la lama sul palmo della mano. Doveva farlo o sarebbe impazzito…più di quello quanto già lo fosse in quel momento.
Il coltello incise la carne aprendo un taglio nella turgida cute. Albert ritrasse la mano con un sussulto e poi se la guardò. Sono un cacasotto. Il taglio era superficiale ma profondo quanto basta affinché un rivolo di sangue capillare sgorgasse dalla lacerazione.
Albert gettò a terra il coltello con un sospiro poi andò sfinito in bagno a mettersi un cerotto.

*  *  *

Al dipartimento lo accolse sorridente Lucinda. Quel giorno aveva la capigliatura tinta d’un blu di Venus che le donava un’aria formale ma briosa.
“Ciao Al, come va? Ho saputo che ti sei becc…”
“Visser è in ufficio?” la interruppe bruscamente Albert.
“Si caro, il Comandante è in ufficio…ma ti senti bene?”
Albert si scostò impassibile dalla scrivania della collega e si diresse a grandi passi verso l’ufficio del Capitano Visser. Lo trovò dietro lo screentable intento a visionare alcuni rapporti fra i quali, notò Albert, quello su Dekkan.
“Buongiorno agente Brouwer, come va?”
“’Giorno capo, bene grazie”
“Ho saputo che ti sei preso una ionizzata in pieno petto”
“Si..beh…mi sono ripreso abbastanza bene”
“A vederti non si direbbe. Hai una faccia terribile. Comunque, che c’è?” chiese Visser tornando a visionare lo schermo virtuale.
“Vede Comandante…” Albert tentennava. Si rendeva conto che la sua richiesta era anomala e prima di fondamento. Attese solo un attimo, il tempo necessario per decidere d’andare fino in fondo e perché il superiore tornasse a guardarlo “…vorrei consultare il mio schedario sanitario in archivio”.
Visser non rispose ma si mise a sedere incrociando le dita “Per quale motivo, Albert? Lo sai che non sono autorizzato ad aprire gli archivi personali se non per motivi urgenti”
“si capo, lo so ma vede…dopo l’azione contro Valten..beh…non me la passo tanto bene…”
“Capisco” Visser lo fissava intensamente, poi sospirando gli disse: “Ok, Albert, vedrò cosa posso fare. Nel frattempo, prenditi un paio di giorni di riposo, ok?”
“Grazie Comandante”
“Figurati, vai a casa e rilassati. Peter saprà cavarsela comunque” lo rassicurò.
Albert abbozzò un sorriso di rimando e ringraziò il superiore.
Il Comandante restò fermo a osservarlo finché l’agente non fu fuori dell’ufficio, poi rimise in ordine i rapporti su cui lavorava e si sporse verso il comunicatore interno.
“Lucy, il Commissario tecnico per favore”
“Subito capo”
Dopo una breve attesa Visser udì la voce del Commissario rispondergli all’apparecchio.
“Commissario, abbiamo un Blaster Worm su RAC001B, prendi provvedimenti!”
“Si Comandante” la voce di de Vries rispecchiava la fermezza di chi sa come agire.
Visser si adagiò sulla poltrona. Peccato. Si accese un virtualsigaro e restò contemplarne la proiezione tridimensionale del denso fumo che ne scaturiva.

Albert sognò di nuovo, con maggiore intensità e quando si svegliò di soprassalto, ebbe solo il tempo di vedere su di lui il volto di Peter e di altri suoi due colleghi del N.A.R. prima di piombare ancora nell’oblio accompagnato dall’intenso dolore del neurostorditore.


IV

Riprese conoscenza colpito dall’intenso fascio luminoso che lo puntava in faccia.
Gli faceva male ogni parte del corpo e quando tentò di rialzarsi senti subito la resistenza dei lacci magnetici che lo inchiodavano al tavolo su cui era steso.
Ma che cazzo…dove sono? Sembrava una sala operatoria. Attorno a lui tavoli su cui stavano numerosi attrezzi meccanici di alta tecnologia e braccia meccaniche terminanti con strumenti di microchirurgia. Ebbe un sussulto quando noto che accatastati agli angoli vi erano arti meccanici, toraci, mezzibusti e varie parti di robot di diversi modelli, dai più arcaici con carapace metallico, ai più moderni rivestiti di pelle al silicone.
Questo è settore di deassemblamento robotica! intuì allarmato l’uomo.
Il sibilo d’una porta pressurizzata che s’apriva lo distolse dai suoi pensieri.
“Ciao Albert” Visser gli camminò davanti.
Albert provò un certo sollievo nel vedere il volto disteso del suo superiore “Capo! Che succede! Perché sono qui!?”
“Non sai quanto mi dispiaccia Albert ma c’è stato un malfunzionamento nel tuo software positronico. Insomma…” Visser distolse lo sguardo da quello incredulo dell’agente mentre cercava le parole giuste “…sei infetto!”
“Cosa…ma che cazzo sta dicendo?!” la sensazione confortevole avvertita da Albert alla vista del capo svanì nell’udire quell’affermazione.
“Albert, sei un robot! E hai contratto un Blaster virus, un resettatore!”
La realtà gli crollò addosso pesantemente.
Albert ebbe un attimo di esitazione, poi rielaborò l’affermazione di Visser. E fu sconvolto.
Non è possibile non è possibile non è possibile “Non è possibile! Non può essere vero!” urlò l’agente “E’ una insulsa diffamazione! E’ una follia!”
Visser lo fissava impassibile attendendo che l’agente si sfogasse poi riprese “Sono sconvolto quanto te, per l’infezione si intende. Riguardo la tua natura, ne sono al corrente perché ti ho programmato io”.
“Ci deve essere stato un malinteso, un errore nel sistema di indagine!” sbottò Albert terrorizzato
“No, nessun errore. Tutto regolare…” il Comandante si avvicinò al volto dell’agente “…e reale!” si allontanò di qualche passo e si sedette sulla sedia che si trovava vicino al tavolo.
“Vedi, ne sono così sicuro, amico mio…” e mentre parlava Visser si premette il dito dietro l’orecchio “…perché anche io sono un robot”. Sul volto gli comparve una linea perimetrale dalla quale si levò un lieve sbuffo di vapore prima che questa si staccasse completamente dalla faccia del droide che provvide a togliere la maschera dai supporti rimanendo a guardare Albert con il teschio metallico scoperto e illuminato dalla luce del cervello positronico in esso contenuto.
Impossibile impossibile impossibile! Albert non si capacitava di nulla: nausea stordimento rabbia paura si mescolavano in lui lasciandolo incapace di agire e parlare.
“Lascia che ti rimuova definitivamente i filtri di memoria Albert, o per meglio dire, RAC001B, perché questo è il tuo vero nome, e sai cosa vuol dire?”
RAC001B…robot Agente di Controllo numero uno, Brouwer…lo so, merda, lo so!
“Si che lo sai” continuò Visser “così come sai il mio vero nome, RPS087V, Robot di Programmazione e Supervisione numero ottantasette, Visser”.
“Vedi, Albert, noi androidi siamo ovunque, in ogni angolo della società umana, in ogni livello delle città. E lo siamo da molti anni. Teniamo d’occhio gli umani evitandone una congestione sociale, un sovrappopolamento, un degrado. Facciamo il lavoro per cui siamo stati creati e programmati: aiutare l’uomo a vivere bene!” Visser, seppur col volto robotico privo d’emozioni, manifestava un palese senso di soddisfazione nell’elogiare il lavoro dei suoi simili. “La maschera di terrore che abbiamo addosso, l’odio che l’uomo prova nei nostri confronti dietro cui cela il reverenziale timore verso il livello tecnologico e di autonomia che abbiamo raggiunto, ci consentono di adempiere meglio al nostro scopo perché ci obbligano a lavorare in incognita. Sai Albert, l’uomo sarà stato anche molto intelligente nel creare in nostri precursori, ma in fondo, è stupido, è semplice, è una macchina con una mete meno complessa della nostra. Basta inserire i giusti stimoli, o dati, ed ecco che l’uomo, nella sua inferiorità, li elabora traendo la conclusione più semplice e più vantaggiosa per preservare il proprio benessere. Fisico e mentale.
Per ciò ogni tanto procediamo all’arresto e allo smaltimento di qualche nostro simile difettoso o assemblato e programmato con l’unico scopo di farsi catturare, o di qualche ribelle ancora in circolazione, così da rasserenare la popolazione umana, farla sentire sicura, protetta da Autorità che la vogliono preservare e tutelare e contemporaneamente continuare a compiere il nostro dovere di robot nei confronti dell’umanità”.
“P..perchè io non sapevo nulla di tutto ciò” domandò allibito Albert.
“Amico mio, mi stupisci! Da agente infiltrato quale sei stato per tutti questi anni non sai che il miglior modo che ha una spia per tutelare se stessa e colui per la quale lavora è di essere al corrente esclusivamente delle informazioni che gli permettano di portare a termine solo i propri compiti restando invece all’oscuro di tutti gli altri aspetti del dipartimento? Con gli androidi è facile dato che basta programmarli apposta. Tu sei stato programmato per credere di essere un umano, sei stato programmato per odiare i robot, per odiare ciò che sei in realtà”
“Ma io..io mi sono tagliato e..e..è uscito del sangue! Io sono un uomo!” ribadì Albert tentando di aggrapparsi agli ultimi spiragli d’una speranza martoriata dall’evidenza.
“Effettivamente Albert tu più di chiunque altro robot potresti essere definito antroposimile. Sei stato il primo modello della nuova serie di agenti infiltrati. Androidi con una riproduzione anatomica del corpo umano perfetta! Pensa che siamo riusciti anche a riprodurre il tessuto sanguigno capillare sottocutaneo. Ecco perché quando ti sei tagliato è uscito del sangue, o per meglio dire, un liquido sintetico simile al sangue. Immagino che tu l’abbia fatto per verificare la tua natura umana dopo l’incontro con Valten, vero?”
“Si, si, facevo strani sogni, mi faceva male la testa dopo che abbiamo ucciso Valten” rispose nervosamente Albert.
“Come immaginavo” Visser si alzò e prese a camminare attorno al tavolo “Beh! Valten, o per meglio dire RAC625D era un vecchio modello di agente che lavorò per noi ma il suo sistema positronico andò in conflitto dopo che uccise per sbaglio un umano durante una colluttazione con un androide ribelle. Così il suo sistema generale si scollegò dalla nostra rete di controllo e iniziò a elaborare un differente database di azione verso gli umani. Insomma, non condivideva più il nostro modo di agire nei loro confronti. Così modificò alcuni software del suo cervello positronico ampliando e modificando i recettori in modo che qualunque altro robot interagisse con lui subisse gli effetti delle sue interferenze e sbloccasse i suoi filtri. In breve tempo scollegò quasi quaranta agenti. Era un pericolo considerando poi che prese contatto anche con alcuni androidi ribelli. Andava fermato al più preso, prima che gli uomini si accorgessero del cambiamento.” Il Comandante si fermò di nuovo davanti ad Albert. “E tu eri il più evoluto di noi. Non pensavamo certo che Valten avesse potenziato così tanto i suoi recettori.”
Visser fece una pausa continuando a fissare l’agente con il suo inespressivo volto bionico.
“Mi dispiace davvero Albert, ma sei stato infettato. E devi essere demolito. Addio Albert”.
Visser riprese la maschera e si diresse verso l’uscita.
Albert era terrorizzato “No, aspetta Visser, non sono infetto! Aspetta cazzo! Liberami!”
“Procedete” fu l’ultimo comando di Visser prima che la porta si chiudesse dietro di lui.
Albert gridava in modo straziante.

La sega circolare tranciò di netto la gamba ma anziché carne sangue e ossa l’amputazione rivelò un’accozzaglia di ferri ingranaggi e tubi da cui pompavano liquami oleosi che s’espandevano in una chiazza sul pavimento.
Un braccio robotico portante una lama ricurva e aghi sonda gli apparve in prossimità del capo e iniziò a aprirgli la testa…
Stavolta la neurosveglia non suonò.


Alessandro Allegrucci

martedì 20 dicembre 2011

Scorie




Prologo

Gli anfibi martoriavano la coltre intatta della neve.
I fiocchi già coprivano la capsula d’atterraggio e a un centinaio di yarde il profilo dei prefabbricati del Settore 83 si delineava nero contro il tenue bagliore della perenne alba polare.
La squadra si gettò spalle al muro non appena raggiunse lo stabile d’ingresso.
Kenneth estrasse una mina sonica dalla giberna e la premette con forza contro il pannello sigillato. “Defilarsi!”. Il fragore della detonazione fu assordante.
Il Sergente Baynes attese che i detriti dell’esplosione precipitassero e la coltre di polvere si diradasse poi impartì secco l’ordine “Avanzare!”. La sua voce profonda suonava ancor più ruvida quando trasmessa dal voxifer interno la chemiomaschera.
La squadra si mosse rapida oltrepassando le macerie. All’interno attivarono all’unisono i puntatori laser e i microriflettori. Dieci fasci di luce lacerarono l’oscurità perforando la flebile parete di polvere che si sollevava dal pavimento.
“Owen, contatta la nave” disse Baynes. Venti passi dietro Owen s’accovacciò e captò la frequenza della nave supporto “Indi Sierra, Indi Sierra qui è Fox Four”. L’attesa fu breve e la risposta chiara “Qui è Indi Sierra, vi riceviamo Fox Four” la trasmissione, gracchiante e secca, era pulita “Fox Four è entrato, ripeto, Fox Four è entrato” il tono di Owen, seppur marziale, era sollevato. “Ok Fox Four, attiviamo i termorecettori”.
Anche Baynes si sentì più sereno. Nonostante le radiazioni il segnale era libero da interferenze e udire la voce dell’operatore dell’incrociatore voleva dire poter contare sul supporto immediato di due dozzine di cannoni a ultraonde. Chiunque si sarebbe sentito con le spalle coperte.
La squadra riprese a muoversi.
I fasci luminosi illuminavano un edificio vuoto formato da un unico corridoio. Nonostante quella struttura avesse poco più di trent’anni, sembrava fosse lì, abbandonata, da più d’un secolo: le pareti, coperte di ruggine trasudavano spurghi oleosi. Qualche frattura lungo le tubazioni angolari gocciolava liquidi che a terra s’allargavano in pozze che riflettevano gli sfuggenti laser dei militari.
Il silenzio era rotto dal suono flebile e costante delle ventole d’inalazione e dal ritmo alternato dei respiratori.
Finora la situazione era stabile.


I

Quando i fasci luminosi illuminarono carcasse di maiali appese al soffitto il morale della Squadra Fox Four vacillò nonostante l’esperienza.
Il corridoio appena percorso terminava in una biforcazione. Il Sergente Baynes decise di ispezionare prima il settore sinistro così mosse i suoi uomini verso il nuovo andito che s’ apriva su un atrio all’interno del quale rapide scariche di elettricità fendevano il buio.
 “Kenneth, Mc Neil, avanti cauti”
I due uomini scattarono rapidi ma attenti all’ingresso dell’atrio.
Le torce s’accesero su carogne appese per i garretti posteriori al soffitto e sulle quali s’abbattevano frequenti scariche elettriche generate da alternatori infissi nella carne.
Baynes rimase freddato da quel macabro spettacolo, Owen represse un conato di vomito, gli altri immobili.
La flebile voce gracchiante di Kenneth al voxifer fece sussultare gli uomini: “Sembra tutto…tranquillo”.
Poi il fante si volò verso il Sergente col volto reso grottesco dalla chemiomaschera dai due grandi visori in corrispondenza degli occhi che lasciava comunque trapelare la preoccupazione del soldato: “Avanziamo?”
Baynes confermò con un cenno della testa e rapidamente impartì l’ordine di apertura a ventaglio.
La squadra si dispiegò nell’atrio incurante delle saette che si spegnevano contro le piastre del carapace. I fucili puntati e le dita tese sul grilletto. Ogni senso teso in allerta per captare il minimo cambiamento in quella situazione ambigua.
“Ci si potrebbe fare un bel barbecue, eh, Sergente?” il voxifer riprodusse le parole di Grant che si faceva largo fra gli avanzi animali impugnando il suo lanciafiamme.
“Vaffanculo Grant!” gli rispose Yassef, il medico, pieno di ribrezzo nonostante lui di lacerazioni e viscere ne aveva viste parecchie.
Baynes fece tacere entrambe.
Il suono sordo delle carcasse sulle corazze di polipropilcarbonio cadenzava l’avanzata degli uomini.
Baynes le osservava attento. Erano a centinaia, gli apparivano alla vista in ogni direzione distinguendosi dallo sfondo nero a mano mano che il puntatore le illuminava.
Sembrava essere in un macello, sembrava che quell’atrio fosse infinito.
Il Sergente notò che quelle carcasse di maiale erano connesse al soffitto con cavi e tubazioni entro cui scorreva qualcosa. Sulla carne, oltre agli alternatori di corrente, s’infilavano flebo, aghi e condutture oltre che presumibili rilevatori di stato che brillavano di spie luminose.

“Sergente…” era Grant.
“Grant, prima di sparare una cazzata conta fino a dieci e poi stai zitto”
“No Sergente…è una cosa seria…venga a vedere”
Baynes individuò la posizione di Grant dal sonar del visore e lo raggiunse prontamente.
Il commilitone stava davanti al ventre aperto d’una carogna tenendo la canna dell’arma abbassata al fianco.
“Grant, eccomi!” la vicinanza di Baynes scosse il soldato dai suoi pensieri e indicò al Sergente ciò che aveva visto.
All’interno del ventre dell’animale stava un’altra cosa.
Un altro essere dal volto umano rannicchiato fra le viscere putrescenti. Dal cranio si dipartivano i tubi al cui interno fluivano icori che alla luce apparivano d’un colore malsano.
La creatura pareva un feto umanoide ma gli arti, seppur raggomitolati sul piccolo ventre, erano costituiti da parti meccaniche e si dipartivano dal torace come protesi. Ferite non ancora cicatrizzate, segni di operazioni recenti di recisione mal ricuciti decoravano il torace. Sembrava quasi che quella cosa fosse un tentativo di umanizzare un corpo deforme mediante asportazioni, ricuciture, modellazioni, applicazioni.
Quelle carcasse erano substrati di coltura, grembi di gestazione per umanomacchine.


II

“Kenneth, Hortwood, mine incendiarie su ogni direzione”
“Si signore”
“Ricevuto”
Kenneth si spostò verso le estremità della sala zigzagando fra quegli artificiosi macabri grembi.
La scarica lo travolse in pieno.
Un lampo di luce azzurra sferzò d’improvviso il buio abbattendosi sul soldato che fu proiettato contro le carcasse e poi a terra.
La corazza di poliroprilcarbonio aveva per fortuna assorbito il colpo ma l’urto era stato tremendo.
La squadra s’allarmò a quel fracasso. Il rilevatore segnalava Kenneth a terra.
“Kenneth ci sei?” era Baynes.
Restò in attesa d’una risposta col cuore in gola.

“…si…ok” era la voce un po’ scossa di Kenneth.
“Ok ti raggiungiamo, Jassef con me. Hothwood, Wain, Grant tenete d’occhio il perimetro”
Raggiunto il ferito i compagni furono felici di constatare che non aveva ferite o fratture e l’aiutarono a rialzarsi.
“Cos’è stato?” chiese il Sergente.
“Non lo so…era un lampo…una scarica elettrica. M’ha beccato in pieno cazzo!”
“Era più forte di delle che c’erano quando siamo entrati qui dentro” osservò Jassef
“Pensi l’abbia generata qualcun altro?” interrogò Baynes
Kenneth era in confusione. Il colpo e l’umiliazione d’essersi fatto beccare alla sprovvista lo irritavano: “Non lo so ve l’ho detto, non ho visto nulla, ero girato quando…”
La stanza si riempì ancora del bagliore elettrico.
Stavolta, in risposta, colpi secchi di fucili.
“UMV ore tre! UMV a ore tre!” Wain comunicava con ‘intera squadra.
Gli uomini conversero verso la posizione di Wain. Si spostavano urtando quelle sacche d’aberrazioni che dondolavano inermi.
Wain gli apparve che sparava a raffica verso il buio. Avanti a lui le carogne incassavano i colpi, i tubi esplodevano, le carni si laceravano e le cose dentro il ventre s’animavano di dolore protendendo gli arti in movimenti convulsi mentre vagiti agghiaccianti accompagnavano il rumore assordate dei proiettili sparati dal soldato.
“Wain, Wain!” Baynes corse incontro al compagno e lo spinse “Wain!”
Il soldato si voltò di scatto verso il Sergente, il suo respiro era cogitato.
“Wain che hai visto?”
“Signore, stavo tenendo d’occhio il perimetro poi dietro uno di quei cosi ho visto un’ombra. Mi sono spinto avanti d’un passo appena che mi son visto puntare contro un aggeggio che ha iniziato a vorticare. Mi sono defilato appena in tempo prima d’essere investito dalla scarica”
“L’hai beccato?”
“Non ne sono sicuro signore”
“Va bene Wain” Baynes vide l’agitazione del soldato. “Tutto ok?”
“Si, Signore”. Quella situazione stava mettendo a dura prova il morale di uomini esperti come loro. Se ne doveva uscire al più presto.

UMV, Unità Mobile Vivente, c’era quindi qualcuno…qualcosa con cui prendere contatto. Qualcosa da monitorare prima di contattare il comando in orbita.
“Ok, Fox Four, occhi aperti, avanziamo il linea con contatto visivo, aprite il fuoco contro ogni cosa diversa da un maiale appeso”. Poi precisò “mirate basso. Ci servono vivi…per il momento”.
La squadra si mosse con le armi spianate scostando i grembi con le canne dei fucili.
Alcuni feti feriti o contusi erano rinvenuti così che ora il silenzio era traviato dal lugubre frignare, vagire di decine di stridule grida emesse da ibridi di carne e macchine.
Davanti a sé Baynes vide le mezzene straziate dai colpi di Wain e ustionate dalla scarica elettrica.
Si soffermò più a lungo quando ne vide una a terra, per metà maciullata, con i cavi spezzati, i tubi schiantati dai proiettili che colavano umori viscidi nel pavimento lurido. Schiacciato dall’addome flaccido della carcassa stava un feto, un corpicino il cui volto era per metà costruito di placche metalliche. Il torace si alzava e abbassava convulsamente e quando il Sergente osservò l’unico occhio lucido con le pupille dilatate puntare il suo sguardo, ebbe un fremito e scavalcò rapido lo scempio.








III

Finalmente gli uomini raggiunsero il limite della sala. Una grande porta a due ante era la via di fuga da quel luogo infernale.
Il Sergente fece uscire la squadra celermente dopo che furono lanciate le mine incendiarie.
I soldati si posizionarono al riparo del muro esterno e attesero la detonazione.
La vivida luce del fosforo oscurò i visori, poi il boato e l’inferno fu davvero tale poiché lingue di fuoco incendiarono ogni cosa. Le fiamme avvolgevano le carcasse, ne friggevano la cute. Alcune esplodevano dei gas di putrefazione e allora gli icori che ne scaturivano s’incendiavano a loro volta mentre dilagavano a terra. Strilli d’acuta sofferenza sovrastavano il cupo rumore del fuoco.
Baynes guardava quello spettacolo con sadica soddisfazione.
Quel luogo era infetto.
Quel luogo era malato corrotto deviato.
Andava epurato.

Owen lo vide sporgersi al termine del corridoio distinguendosi al riverbero delle fiamme.
“UMV a ore dodici!” gridò.
Baynes si riprese dai suoi pensieri, imbracciò il fucile: “Non facciamocelo sfuggire!”. Scontato, ma galvanizzante.
Gli uomini correvano sicuri sul nuovo terreno sgombro degli osceni ostacoli. Il morale era di nuovo alto. L’uomo è belva, gode d’insana gioia nel vedere la distruzione, trova da starci bene.
La squadra scivolava sicura con rapidi passi verso il bersaglio.
Giunti all’angolo Hortwood e Mc Finn aprirono la strada.
E furono investiti da un bagliore fulmineo.
Stavolta il colpo era atteso, mirato, vicino. Troppo vicino perché le corazze ne assorbissero la tensione. Travolse i militari in pieno.
La testa di Mc Finn esplose come un melone troppo maturo.
Hortwood ebbe metà del torace dilaniato.
I resti dei due caddero a terra con un sordo tonfo.
“Cazzo cazzo cazzo!” Jassef era sconvolto, si gettò senza pensarci sui resti dei compagni
Baynes tentò di trattenerlo senza riuscirci, il perimetro non era ancora sicuro.
Il medico raggiunse svelto Hortwood e per fortuna non tuonarono altri fulmini.
Pulito! Baynes allora ordinò l’avanzata fino a punto di raccolta e lo vide, il nemico, laggiù nella penombra scapicollarsi nel tunnel di destra.
Venti metri. Traiettoria lineare. Bersaglio mobile. Traguarda basso.
Rapido gli puntò contro l’arma e falciò l’essere.
“Owen, Candlers, rimanete qui con Jassef, gli altri con me”.
La squadra raggiunse il corpo nudo dell’uomanoide steso sul fianco. Toys lo ribaltò supino con un calcio. Gli occhi distanti e spalancati dal terrore e da dolore scrutavano febbrilmente gli aggressori.
Vivo!
Le gambe crivellate dai colpi madide di sudore e sangue, il respiro affannoso di chi soffre, il corpo cosparso di gibbosità, cicatrici e appendici simili a piccole proboscidi, il volto schiacciato e asimmetrico più simile a un batrace che a un uomo. Dal cranio glabro si dipartivano sottili cavi che raggiungevano l’arto sinistro su cui era stata impiantata una protesi biomeccanica corrispondente alle descrizione di Wain.
Un fucile a impulsi. Merda! queste bestie sono armate per bene! Il sergente si chinò sull’ibrido “Sono il Sergente Fergus Baynes dell’Esercito delle Nazioni Unite. Ho il compito di confinare tutti gli abitanti del complesso. Dimmi dove si trovano e riceverai cure mediche”.
L’essere continuava a osservare Baynes e gli altri militari con astio e rancore.
Fottuto imbecille Baynes ci riprovò “Sei a terra ferito e incapace di muoverti, non tentare di opporre resistenza” il militare non fece in tempo a terminare la frase che l’arto bionico iniziò a sfrigolare fiamme azzurre e piccole scariche si svilupparono dal cranio del ferito che cadde in preda a un fremito incontrollabile.
Baynes alzò lo sguardo verso i suoi “Via via! A Terra!”
L’umanoide venne dilaniato dall’esplosione e un’onda d’urto devastante scaraventò tutti per aria.
Lampi si dispersero in ogni direzione e sferzavano le pareti con schianti e violenti fragori.
Là dove prima c’era il corpo ferito ora si spandeva una chiazza informe di umori e frattaglie. Attorno pezzi di muro erottami dell’esplosione.
Gli uomini si riebbero, seppur storditi.
Il voxifer trasmise Grant “Signore, Kenneth è ferito”
Baynes si voltò e vide Kenneth seduto contro la parete con due grosse schegge di metallo infilzate nel ventre e nella gamba.


IV

Baynes attivò il voxifer per chiamare il medico ma l’apparecchio produsse solo rumori osceni che ne afflissero l’udito.
Ebbe un fremito e si rivolse a Owen urlando per farsi sentire oltre la chemiomaschera “Chiama la nave!” dovette gridarlo due volte per farsi sentire dal radio-operatore accompagnando l’ordine a gesti. Owen attivò il trasmettitore muovendosi per captare il segnale. Nulla, solo lo sfrigolante suono delle interferenze.
Dannazione! Baynes accese la radio a onde corte e di nuovo la sua voce raggiunse quella dell’intera squadra “Ok ragazzi, gli impulsi dell’esplosione hanno messo K.O. il segnale radio. Attivate la bassa frequenza e manteniamoci entro il raggio di contatto ogni volta che ci spostiamo. Per il momento siamo tagliati fuori con la centrale operativa della nave, chiaro?” in risposta udì la conferma via radio di tutti i superstiti della squadra.
In realtà Baynes aveva ancora un sistema per mettersi in contatto di nuovo con la nave, ma era davvero l’ultima risorsa disponibile.
La squadra stabilì il punto di raccolta dove giaceva Kenneth.
Dopo aver raccolto i caduti Jassef si dedicò al compagno ferito il quale singhiozzava sangue a ogni respiro.
“E’ messo male Signore” disse il medico a Baynes” la scheggia al ventre deve aver perforato il fegato. Ha una emorragia interna. Farò il possibile per bloccarla ma…”
“Va bene Jassef, va bene” lo rincuorò Baynes. Dobbiamo proseguire l’azione ma abbiamo già due perdite e un ferito grave.
La situazione stava prendendo una brutta piega.
“Jassef Owen e Grant rimanete qui. Mettete in sicurezza il perimetro e controllate Kenneth. Candlers, Toys e Wain con me, proseguiamo l’ispezione. Ci vediamo fra 60 minuti qui”
La squadra si divise. I passi di Baynes e dei suoi uomini si persero nei meandri del fabbricato. I rimanenti iniziarono a posizionare i sensori di movimento attorno ai corpi dei compagni.


“Bella situazione, eh Owen?”
“Più tosta del previsto, direi Grant”
“Cazzo e non ho ancora arrostito nessuno”
“La finite di sparare cazzate voi due?” s’intromesse Jassef “e che cazzo Kenneth sta morendo! Finite di piazzare i sensori e state attenti”
“Jassef stai tranquillo, lo sappiamo, è che a stare a pensare ‘ste cose mica ce ne esci, tu pensa a fare il tuo che noi la guardia la facciamo”
Ma nessuno dei tre si accorse che dalle prese d’aria del soffitto stessero uscendo congegni mobili.

Il sensore di movimento scattò.
I due militari si voltarono di scatto e videro davanti a loro una specie di aracnide meccanico dotato d’un deforme cranio umano che avanzava rapidamente entro il perimetro.
Dopo un attimo di sorpresa gli uomini gli sputarono addosso tanto piombo da fracassarlo prima che li raggiungesse.
Come cazzo ha fatto a superare i rilevatori? pensò Owen. L’istante dopo altri due sensori suonarono l’allarme.
Jassef fu costretto a mollare Kenneth e imbracciare il fucile quando altri due aracnidi bionici gli si fecero vicini mentre altri tre aggeggi furono spazzati via dai compagni.
Poi silenzio.
Oltre i raggi viola dei sensori perimetrali il buio sembrava aver ingurgitato i tre soldati e solo i sussulti del moribondo lasciavano intendere che non erano stati inghiottiti altrove.
Il fulmine lacerò l’oscurità.
In risposta i fucili schioccarono i colpi in rapide raffiche. I traccianti solcavano l’aria e si schiantavano contro la parete in fondo al corridoio.
Grant accese il lanciafiamme e tutto s’illumino di morte.
Nel bagliore i soldati videro sagome umane seminude investite dalla vampata ardente. Dal tronco di queste penzolavano braccia inerti al di sotto delle quali erano stati innestati i supporti di carabine a impulsi impiantate al di sotto del diaframma. I volti mostruosi erano frutto delle aberrazioni che le radiazioni nucleari avevano provocato agendo per tanti anni su quegli esseri: labbra fuse, occhi asimmetrici, nasi infossati. Laceri lugubri mutati in parodie d’un essere umano quelle cose avanzavano verso gli intrusi e quelli investiti dalle fiamme prendevano fuoco e allora gemendo iniziavano a correre impazziti scontrandosi fra loro e contro le pareti per poi crollare a terra ove rotolavano agonizzanti mentre le carni cocevano e ardevano e vesciche si gonfiavano e esplodevano e la pelle anneriva e si staccava, le cuciture saltavano, le fusioni lessavano e i pezzi meccanici si staccavano lentamente dalle parti carnose mentre i copri martoriati sussultavano a terra.
Jassef e Owen erano agghiacciati mentre Grant se la rideva spietato riversando con le fiamme anche la paura, il terrore e l’angoscia provata fino a quel momento.
Smise di ridere solo quando il suo corpo venne spezzato da una scarica che lo colpì in pieno nella schiena. Grant si ridusse a un ammasso di frattaglie che esplosero tutt’attorno ricoprendo i suoi compagni d’appiccicosi liquami.
Un’altra saetta e poi un’altra ancora lambirono i due prima di schiantarsi contro i resti di Horthwood e Mc Finn che furono sbalzati fracassandosi a terra fra i cadaveri umanoidi che continuavano ad ardere spandendo i rancidi fumi nell’aria.
“Jassef lancia una sonda!” urlò alla radio Owen.
Il medico reagì prontamente e un istante dopo la sonda s’accese proiettando il suo bianco riverbero in tutto il tunnel.
Oh mio Dio! Owen non si capacitò degli allucinanti esseri che si trovò di fronte: umanoidi dal cui inguine si dipartivano molteplici arti meccanici mentre da ogni orifizio fuoriuscivano cavi che si collegavano al ventre in cui era infisso un generatore di energia che rigurgitava scariche violente.
I soldati ripiegarono sputando quanto più piombo possibile contro quelle aberrazioni nel disperato tentativo di rallentarne l’avanzata e raggiungere una via d’uscita.
Jassef cadde a terra quando fu raggiunto da una folgore che gli amputò la gamba e Owen lo avrebbe anche soccorso se un umanoide dalla pelle ancora lambita dalle fiamme e cosparsa di pustole non gli avesse improvvisamente vomitato addosso un mortale fiotto elettrico troncandogli il respiro e la vita.

Kenneth aprì gli occhi e vide su di se delle zampe bioniche.
La vista mise a fuoco un essere ripugnante metà macchina e metà uomo con il corpo infisso brutalmente su arti meccanici che ricambiava il suo sguardo. Le gambe lui non se le sentiva più così non accusò alcun dolore quando il biocongegno ne trafisse una con la protesi acuminata.
La mano di Kenneth raggiunse la sacca d’esplosivi.
Fece appena in tempo a togliere la linguetta a una delle granate termiche prima che la folgore lo finisse.

V

Il boato fu sconvolgente anche per Baynes e la sua squadra.
Stavano consultando una vecchia piantina, lisa e consunta che gli permise di orientarsi e individuare la via più rapida per raggiungere l’ex sala controllo limitrofa al nocciolo in cui avrebbero piazzato le cariche di demolizione quando il fragore della detonazione e l’onda d’urto che ne consegui non fece perdere loro l’equilibrio mentre le radio fischiarono distorte dalle interferenze.
“Dev’essere successo qualcosa di brutto a Grant e gli altri!” affermò Toys.
“Che facciamo Signore?” chiese Candlers.
Non si può annullare la missione ma fanculo, la situazione sta precipitando! il boato è stato devastante! Sembra siano esplose una dozzina di granate termiche! Baynes riflettè un attimo prima di decidere. I suoi uomini lassù stavano combattendo duramente. Avevano armi sofisticate, un addestramento impeccabile e una volontà di ferro. Se davvero erano messi male avrebbero comunque venduto cara la pelle. In ogni caso lui e la sua squadra sarebbero arrivati a scontro concluso, a favore dell’una…o dell’altra parte.
Avanti. Andare avanti e chiudere la missione prima possibile. Quella era l’unica strada.
“Si prosegue” disse Baynes con tono che non ammetteva repliche.
I soldati continuarono ad addentrarsi nelle viscere della centrale senza incontrare ulteriore resistenza ma a mano a mano che proseguivano la radioattività aumentava e il mal di testa che iniziò a tormentare Baynes era un chiaro segnale di esposizione prolungata a quell’ambiente malsano.
Il livello di degrado del fabbricato era sempre peggio, come se il complesso avesse iniziato a marcire dal cuore e l’infezione si fosse lentamente espansa verso l’esterno continuando inesorabilmente a erodere i meandri più nascosti.
Macerie, rottami, tubazioni spezzate porte divelte e pezzi di murature crollati rappresentavano il palcoscenico su cui i quattro uomini recitavano quello snervante spettacolo.

Pareva che oltre la parete vi fossero centinaia di macchinari in funzione.
Da dietro la porta sigillata proveniva un suono assordante di materiali tagliati battuti fusi avvitati e una intensa luce filtrava dalle fessure delle ante di acciaio rinforzato.
Toys estrasse la mina sonica dalla giberna e la colloco in corrispondenza della serratura, poi i quattro si gettarono al riparo e un momento dopo l’esplosivo schiantò i cardini e la porta venne divelta con facilità.
Baynes, Candlers, Toys e Wain oltrepassarono il varco con le armi spianate pronte a far fuoco.
Gli accolse un bagliore accecante di decine e decine di neon che illuminavano l’enorme salone come se fosse giorno.
E una distesa di metallo e carne apparve alla vista dei militari increduli e sgomenti.
V’erano mucchi accatastati di arti recisi toraci straziati appendici immonde tentacoli brandelli di cute ossa e viscere e pezzi tutti rifiuti d’umanoidi. Eccessi questi venuti estirpati dai corpi deformi da cui fluivano fiotti d’umori marci.
Altre cataste erano invece di ferraglie ingranaggi cavi pistoni articolazioni assemblati in pezzi antropomorfi simili ad arti e parti del corpo umano.
Dal soffitto pendevano argani mobili con pinze che prelevavano manciate di materiale dall’una o dall’altra accozzaglia trasportandole fino a tavoli d’assemblaggio, centinaia di tavoli su cui distesi stavano corpi umanoidi incompleti ma coscienti che attendevano d’essere ricomposti.
Il clangore delle macchine operanti imbrogliato al berciare e al gemere degli esseri mutilati generava una cacofonia che violentava i quattro uomini proiettati in quel mondo mostruoso.
Quando una testa mozzata volò friggendo fino a Baynes, il suo sconvolgimento non si spinse oltre l’oblio in cui già lui e i suoi compagni erano annegati.
Tutto questo non può essere vero! No, non esiste! E’ solo un terrificante incubo! La mente umana seppur mutata dai campi radioattivi non può aver partorito tali oscenità! Questi sono bestie immonde, scempi aberranti provenienti dai meandri dell’inferno!
Tali i pensieri che vorticavano nella mente di Baynes mentre quel cranio dalle cui appendici spinali dipartivano antenne e prolunghe continuava a ronzare attorno ai militari studiandone l’aspetto con occhi a obiettivo che s’allungavano e s’accorciavano freneticamente.

I neon si spensero e il sinistro suono d’allarme saturò l’ambiente accompagnato dalla luce alternata delle sirene d’emergenza.
Quell’ improvviso cambiamento riportò gli uomini coi piedi per terra.
“Oh merda! Capo, c’hanno beccato!” esclamò Toys.
“Che facciamo?!” chiese agosciato Candlers.
“Sangue freddo e grilletto facile” fu la risposta di Baynes “questi cosi non sono immortali”.
I quattro uomini si defilarono verso i primi ripari disponibili e aprirono il fuoco. Il primo bersaglio di Baynes fu un mezzobusto che avanzava a tentoni verso di lui trascinandosi sulle braccia mentre viscere e cavi fuoriuscivano dal ventre aperto.
Dai depositi, dagli antri, dalle porte apparivano biomacchine soldato armate di fucili a impulsi.
La sala si riempì del crepitio dei fucili e dei bagliori sfrigolanti delle saette.
Alcuni corpi vennero attivati direttamente dai tavoli d’assemblaggio non appena gli argani terminavano di connetterne  le tubazioni e iniettavano fluidi stimolanti per via endovenosa.
I colpi dei militari erano precisi e rapidi ma questo non bastò a fermare il fiotto di energia che investì il bancone dietro cui si riparava Wain. Tavola e uomo vennero spazzati via dal getto potente della scarica andandosi a schiantare brutalmente contro la parete opposta.
Baynes osservò inerme la scena ma riprese a sparare e fu allora che a cinquanta yarde di distanza scorse il silo di cemento spesso e cupo da cui si dipartivano centinaia di connettori e tubazioni: il reattore nucleare della centrale.
Trasmise l’obiettivo ai rilevatori dei suoi due compagni sì da  portare finalmente a termine il loro lavoro, poi, con fermezza, innestò la baionetta sulla canna del suo fucile mitragliatore e usci allo scoperto.
Il grido soffocato dalla maschera non sminuiva l’impeto battagliero di quell’uomo. Infilzò in pieno petto una belva fatta di carne e metallo recidendone i vasi sintetici e perforando la turbina di alimentazione. La cosa tremò febbrilmente scaturendo scintille e umori dalla lacerazione e cadendo a terra contorcendosi. Baynes ritrasse con forza l’arma e prese a sparare sui alcuni copri deformi che barcollavano verso lui.
Toys gli fu accanto in breve tempo. L’agitazione era percepibile dalla foga con cui sparava mentre il suo petto s’alzava e abbassava con ritmo frenetico e il respiratore emetteva suoni profondi e rapidi. Si gettò a terra appena in tempo per non essere investito dal raggio nemico ma cadde in una pozza melmosa di viscidi icori.
La radio gracchiò la voce concitata di Candles “Ragazzi, dove siete? Non vi vedo!”
Baynes si voltò per cercare l’amico ma non lo vide.
“Eccolo là” disse Toys, lo vide anche il Sergente.
Stava al riparo d’un tavolo su cui poggiava anche un inerme corpo straziato dai colpi mentre Candles usando la stessa carcassa come riparo, sparava a raffica verso una mezza dozzina di umanomacchine che tentavano di raggiungerlo riversando sul militare ondate di scariche brutali e imprecise.
“Candlers! Candlers! Ore tre, ci vedi?” Candlers si votò di scatto verso la loro posizione annuendo. I due allora iniziarono a bersagliare le belve semiumane in modo da coprire il ripiegamento dell’amico.
A pochi passi da loro Candlers venne raggiunto da un’improvvisa scarica che ne fece esplodere il corpo dalla cintola in giù. Interiora, sangue e frattaglie schizzarono addosso a Baynes e Toys diluendosi con i liquami viscosi che già ne ricoprivano tute e corazze.
Baynes scosse Toys annichilito da quell’orrore: “Coraggio Toys manca poco! Poi si torna il punto di raccolta e chiamiamo la nave” Balle! Però adesso mi serve accanto un fucile maneggiato da una mente lucida.
Candlers esalò gli ultimi respiri mentre tentava di raggiungere gli amici, fu travolto da un’altra scarica che lo lasciò a terra fumante e immobile.
Baynes s’infilo sulla destra seguito da Toys. Voltato l’angolo s’imbatté in una presenza giovane che lo fissava con sguardo catatonico.
Il corpo del ragazzo si trovava dietro un muretto ma vedendone anche solo metà non sembrava aver segni evidenti di mutazioni se non per alcune ustioni da radiazioni e cicatrici all’altezza del collo e del petto.
Baynes tentò di stabilire un contatto: “Ehi, tu! Mi capisci? Di ai tuoi che non siamo forze d’invasione”. Il ragazzo continuava a osservarlo con sguardo assente. Il Sergente s’avvicinò cautamente mentre Toys lo copriva alle spalle: “Mi senti? Avete incominciato voi! Noi dovevamo solo censirvi e scortarvi in zone sicure”.
L’interrogato piegò allora le labbra in una smorfia, poi aprì la bocca come se la mandibola mancasse dell’articolazione e una luce verdastra proveniente dall’interno riempì la gola mentre il sibilo profondo d’un reattore si diffuse nell’antro.
Il ragazzo sembrò levarsi in piedi ma poi continuò a sollevarsi sempre più in alto mentre poderosi arti meccanici si snodavano da dietro al muretto. Due delle protesi si raccolsero in prossimità della bocca e cominciarono a generare flussi di corrente elettrica che venivano inghiottiti dall’essere mentre la luce verdastra si faceva via via più intensa.
Baynes e Toys indietreggiarono ma reagirono troppo lentamente prima di capire la gravità della situazione. Con un boato magnetico la bocca dell’essere vomitò un onda positronica sui due che vennero catapultati in aria cadendo a trenta passi di distanza.

Baynes si riprese quasi subito. Un osso fuoriusciva dalla gamba lacerando la tuta protettiva e bagnando corazza e pavimento col suo caldo sangue.
Toys era poco distante che si lamentava. Il suo braccio penzolava spezzato e la gamba era perforata da uno sperone d’acciaio.
Al di la della catasta di ferraglie oltre cui erano caduti s’udiva il rombo del reattore dell’enorme biomacchina che si faceva via via più vicino.
E’ ora di farla finita. Questa missione è costata più del previsto.
“Toys” comunicò il sergente Baynes alla radio “Toys, chiamo la nave”
Toys, stordito dal dolore mosse la testa senza capire cosa dicesse.
Baynes estrasse dalla giberna il radiotrasmettitore. Se le onde a impulso avevano mandato fuori uso il segnale radio, non avevano certo interferito con la frequenza ζ del trasmettitore d’emergenza.
Il Sergente attese qualche istante fanculo! e premette il pulsante.

Epilogo

La spia rossa si accese sul display del radio-operatore della Miserere in orbita attorno a circolo polare artico. “Signore?!”.
L’Ammiraglio si avvicinò al monitor e vide il segnale “Ok Caporale, ci penso io”
L’ufficiale si portò davanti al cruscotto di comando sporgendosi verso il comunicatore: “Squadre arma, è l’Ammiraglio Golden che parla. Fuoco d’efficacia su tutto il Settore 83, ripeto. Fuoco d’efficacia su tutto il Settore 83”.


Alessandro Allegrucci