Inauguro il mio blog con la pubblicazione del mio primo racconto del genere Stampunk ambientato durante la Grande Guerra che ho scritto dopo essere stato stuzzicato, come sempre, dai racconti di Alessandro Forlani.
I
Zanetti sparò l’ultimo colpo prima di scendere dalla piazzola. Si salutavano così, lui e Cecco Beppe, l’austriaco alla guardiola opposta, sparandosi di rimando, come a voler dialogarci col nemico. La canna del fucile si sporgeva dalla trincea o dalla feritoia, e si tirava il grilletto senza prender la mira, ché tanto il nemico si sapeva dov’era, sempre lì, oltre quel pugno di terra lacerata dai crateri degli obici e dei mortai, dissetata dal sangue dei caduti, corrotta dai resti dei soldati.
Gli stivali gli sprofondarono nel fango fin sopra la caviglia quando zompò giù dalla piattaforma; accanto gli passò il cambio guardia: occhi spenti viso scarno passo incerto un uomo una giberna il suo fucile. Bastava questo.
Zanetti claudicante, i muscoli intirizziti dal freddo, si diresse verso la baracca del plotone, un piccolo tugurio scavato nella terra e arredato con casse di munizioni. Fuori stavano Vernini e Caporal Petazzi. Giocavano a carte, ma le prese eran tutte sul tavolo, pensavano dunque, a niente come sempre, all’attacco forse, ma a quello se ci pensavi morivi prima di andarci ché ci si rosicavano il fegato e le cervella.
Caporal Petazzi alzò lo sguardo annoiato rassegnato “oh, com’è?”
E Zanetti “sette, vuoti”
“Cecco?”
“vivo”
“com’è?”
“come me e te”
Caporal Petazzi si accese una sigaretta e buttò sul tavolo un tre di denari, Vernini gettò la briscola e bevve un sorso d’acqua; la presa rimase sul tavolo.
Dentro la baracca il Sergente Fedròn spiegava ai due nuovi come si tiene pulito il moschetto dal fango e ogni quanto cambiarsi i calzini per non farsi scoppiare i piedi. I volti dei rimpiazzi, giovani, esaltati, pregni della solita storia dell’eroe. Rimpinzavano la testa a casa a scuola, in piazza, così da partir per il fronte col petto tracimante di fierezza; poi s' arrivava lì, nel freddo e nel fango, e si vedeva com’era davvero la vita. Ma ‘ste cose le sapevano tutti ma ogni volta che arrivavano i rimpiazzi, ci si ripensava, a vedere quanto erano puliti ignari giovani esaltati…si, uno, due anni di meno o di più di Zanetti, che dal ’15 che era lì sembra averne dozzine in più di chiunque.
Lui si che ne aveva passate e il suo onore, il suo entusiasmo, l’aveva perso da tempo, da quando era sopravvissuto agli assalti delle cime di Cadore, da quando aveva sparato a Fossi, il suo amico d’infanzia, lacerato nel ventre da una granata e che le interiora non riusciva a contenere con la sola mano che gli era rimasta, da quando aveva rubato gli stivali a Tarini, suo vecchio compagno di scuola, cancrena alla gamba amputata, dopo averlo consolato che sarebbe tornato a casa. Ma la guerra, si sa, fa l’uomo animale e ben presto, anche i rimpiazzi sarebbero diventati più bestie che umani.
* * *
I pezzi da 73/13 cadevano cadenzati a ritmi regolari tartassando il fronte nemico per un tempo che sembrava infinito.
Poi il silenzio.
D’un tratto eccolo, il segnale, il Capitano Gaverna lanciò l’assalto: sciabola sguainata si gettò, uscì allo scoperto, balzò fuori dalla trincea urlando “Viva L’Italia!” sparando a casaccio con la Glisenti ché ancora era troppo lontano per beccare qualcosa, la berretta gli cadde da testa ma non se ne curò, tirò avanti invece e dietro di lui l’attendente e l’alfiere di Reggimento col vessillo lacero, e poi via tutti gli altri, centinaia di uomini urlanti che inveivano contro il nemico accatastandosi contro il fossato nella foga d'uscire e uccidere. E morire.
Superati i trinceramenti e il filo spinato si iniziava a correre verso il nemico e allora qualcuno inciampava, altri s’inginocchiavano e sparavano, altri già avevano il moschetto abbassato, già la baionetta che voleva infilzare.
Fra loro Zanetti correva a più non posso cercando un riparo, un cratere in cui gettarsi prima d’arrivare a metà strada perché sapeva cosa accadeva dopo i primi cinquanta passi nella terra di nessuno...Le Schwarzlose iniziarono a cantare e poco dopo i fucili austriaci si unirono al coro.
I proiettili fischiavano ma nessuno ancora indietreggiava. Si precipitavano invece gli italiani verso le bocche da fuoco germaniche. Zanetti si muoveva affannando lo sguardo alla ricerca d’una difesa, un sibilo sopra la testa gli strappò l’elmetto, si gettò a terra e premette il grilletto. Sparava alla rinfusa, vedeva qualcosa, qualche sagoma scura d’elmetto appuntito nel fronte nemico, sparava prendendo la mira incerto se il colpo fosse andato a segno. Davanti a lui decine di uomini correvano scapicollavano cadevano si rialzavano imprecavano e morivano crivellati dai colpi delle mitragliatrici, freddati da un colpo di moschetto, ma nessuno ancora si tirava indietro. I sergenti berciavano d’avanzare incitano gli uomini alla vittoria. Fedròn, passo sicuro, eretto e spavaldo prese uno a terra per la giacca, per spingerlo all’attacco, peccato che a questi gli mancava mezzo volto. Si guardò intorno il Sergente e vede Zanetti poco distante anch’egli a terra, sì gli urla contro qualcosa che vien smorzato dal colpo d’un mortaio che s’abbatte fra loro.
Fumo fango terra e frattaglie.
Quando Zanetti rialzò lo sguardo ne vide solo metà del Sergente che il resto se l’era preso l’aria e l’artiglieria.
Allora decise d’alzarsi e continuare a correre, di cercare un altro riparo stavolta più vicino nemico così da mirarlo per bene e magari colpire davvero. Un moncone d’albero fece al caso suo e vi si gettò dietro.
Lo raggiunse anche Vernini “Oh, com’è?” rideva lui.
“Sette, vuoti…” disse Zanetti, poi si girò, mirò, e fece fuoco. Vide la nube rossa sprizzare da un elmetto a punta.
“…e uno pieno” rise anche lui.
Stavano li, tutti e due e tiravano con calma alternati, mentre uno ricaricava l’altro puntava e sparava. Intorno urla di odio di paura di rabbia di dolore il sibilo dei proiettili scoppio di granate di mortai raffiche cadenzate di mitragliatrici.
Il suono audace della tromba lacerò l’aria gridando la ritirata e tutti corsero ancora, prima sempre rivolti al nemico poi sempre più veloce voltandogli le spalle mentre il coro di rimando delle Fiat-Revelli a copriva l’arretramento.
Alcuni accattavano i compagni, vivi o feriti non importava, altri rovinavano a terra e si rialzavano, altri crollavano e basta. Il ritorno era sempre più difficile ché il terreno già battuto col sangue che lo aveva inzuppato, era fradicio e fangoso. S’ inciampava su nuovi crateri, per schivare alberi a terra e pezzi di uomo e si inciampava invece sui cadaveri.
Si giungeva poi al filo spinato e si rientrava infilandosi nei pochi punti in cui la recinzione d’interrompeva. Capitava che qualcuno ci passasse in mezzo rimanendo impigliato. E allora questo strillava e digrignava i denti, strattonava e si lacerava giubba e pelle pur d’uscirne prima che una raffica lo colpisse.
Ci si gettava infine nel fosso, al riparo, a casa.
Vernini e Zanetti capicollarono nel fango, nel loro fango. Affanno fatica e dolore di ferite e contusioni che con l’adrenalina non si sentivano. Vernini aveva un buco nella spalla ma non perdeva troppo sangue.
Vivi anche per quella volta. Intorno a loro, altri cadono, si gettano, si rotolano nella trincea.
Le Schwarzlose e le Fiat-Revelli si scambiarono gli ultimi saluti, poi, solo il lamento dei morenti per applauso.
II
Non era più come nel ’15, quando all’assalto rispondeva l’assalto, quando dopo che uno usciva dalla trincea e correva verso il nemico e poi ripiegava, l’altro ricambiava il favore. Negli altipiani dopo la Strafexpedition gli austroungarici avevano cambiato modo di combattere.
Nell’inverno del 1916, dopo ogni assalto italiano partivano i 305/10 austriaci incessanti e prolungati, come se il cielo stesse cadendo. Poi, dalle trincee, usciva qualcosa. Parevano caldaie con quattro zampe meccaniche e un paio di pinze azionate da pistoni. Sbuffavano vapore e si movevano fuori dei trinceramenti a recuperare i corpi dei feriti, amici e nemici.
All’inizio non ci si capacitava di cosa e perché, poi qualche cecchino iniziò a tirargli e vide che non andavano giù ma sputavano vapore barcollando per poi riprendere il loro macabro compito.
Ogni tanto veniva colpita la caldaia e se il colpo la forava, il congegno perdeva pressione e iniziava a morire.
Allora gli austriaci ne mandarono di nuove, con la caldaia corazzata che le pallottole del moschetto ci facevano un baffo e iniziarono a coprire l’azione di recupero di quei cosi con le mitragliatrici così che i cecchini non si sporgevano più dalle feritoie ma badavano bene a osservare soltanto.
Il Capitano Gaverna fece rapporto al Comando che gli spedì alcune vecchie corazze Farina con l’ordine di assaltare le macchine.
Si tentarono un paio di offensive contro quegli arnesi mobili e alcuni soldati, indossate le Farina e con le granate in mano s’avviavano faticosamente contro quelle cose coperti dalle mitragliatrici e dai mortai con l’idea di farli saltare in aria. E i tirolesi se ne stavano a guardare senza rispondere al fuoco perché bastavano le macchine da sole a difendersi ché quando gli italiani vi si avvicinavano, queste aprivano le valvole di sfogo e rigurgitavano sui poveri soldati appesantiti della corazza i loro liquidi bollenti. Qualche granata esplodeva vicino alle macchine che si ribaltavano sbuffando fumo, ma poi, fra fischi e schiocchi di articolazioni e ingranaggi, si rialzavano.
Il Capitano Gaverna si rese conto che non valeva la pena perderci degli uomini e vedendo che le macchine non sono offensive lascia perdere gli assalti e scrisse un dispaccio al Comando austro-ungherese ché non sta bene rubare i feriti altrui. Questi gli risposero dopo poco tempo con la cordiale freddezza germanica:
“Wissenschaftliche Bedürfnisse für Ihre Märtyrer wird durch die kaiserlichen Truppen wiederhergestellt werden. garantieren, dass sie alle Ehre erhalten und Pflege verdient jeder brave Soldat“.
Scienza, guerra, onore, Impero.
Poche le parole che il nemico spese per giustificare i suoi macabri atti necrofili.
Si restò a guardare incuriositi il lavoro delle macchine rosicando mentre rubavano gli amici e fratelli di guerra, incapaci di reagire in modo efficace ché appena qualcuno sollevava la testa e prendeva la mira, una raffica di piombo lo investiva sì prontamente ce se non s’era svelti ci si perdeva la ghirba.
Nel 1915 gli italiani produssero le corazze Farina, nel 1916 gli austriaci crearono congegni robotici.
III
Il fischio acuto annunciava morte. L’istante dopo le prime detonazioni, poi altre e il boato diventò insopportabile. I fanti italiani si accalcavano lungo la parete della trincea mettendosi al riparo, si affastellavano come frasche d’una fascina contro la terra della parete della fossa. Cadaveri che ancora stavano in piedi. S’ aggrappavano al terriccio fangoso, c’affondavano la faccia, si guardavano con occhi sbarrati aspettando la fine del tormento, sperando che il colpo non cadesse dentro il riparo.
Ma i colpi quella volta erano altresì ben mirati e a farne le spese furono in tanti, anche il Caporal Petazzi e si vide un braccio volar fuori della trincea.
Stavolta l’Impero faceva sul serio.
Voleva annichilire i Katzelmacher. Si preparava all’offensiva.
Si chetarono i boati, le artiglierie tacerono, e mentre le orecchie ronzavano e nelle tempie martellava ancora l’eco delle esplosioni, il Capitano ordinò di prepararsi a resistere.
Zanetti imbracciò il moschetto, lo appoggiò alle sacche e puntò verso il fronte nemico.
Il cielo si illuminò del fosforo dei razzi.
Le ombre, lunghe, flebili, tremule nella terra tra i due fuochi animarono d’un macabro spettacolo quell’inferno di morte.
* * *
Ogni istante in cui s’attendeva il nemico era l’eternità. Lo stomaco si chiudeva, lo sguardo era fisso, la presa salda, la paura compagna.
L’artificiosa luce dei razzi rifletteva sbuffi violenti di fumo provenienti da ombre massicce e articolate dentro la trincea austriaca. S’udi il trombettista degli Standschützen impartire l’assalto. Zanetti si sistemò ancora il moschetto, trovò un appoggio per la canna e si premette il calcio contro la spalla, trovò la giusta distanza della mano sinistra dal grilletto e chiuse l’occhio sinistro scrutando dal mirino.
Ferro pistoni caldaie fumo vapori. Più grandi dei soliti, forse tre volte un uomo, con tre paia di zampe e arti che portavano canne mozze collegate a tubi flessibili. Eran diversi questi: non raccoglievano morte. Questi la morte la portavano.
Si muovevano incerti passo dopo passo poggiando le zampe ovunque, senza curarsi dell’accidentato. Gli arti meccanici terminavano con ampie dita che s’adattavano al terreno sottostante. Venivano avanti quelle cose, caute, fredde, vuote sfondando le recinzioni, calpestando cadaveri putrescenti ch’esplodevano umori guasti neri di notte neri di giorno.
Emettevano suoni agghiaccianti sibilando vapore, e ferro e lamiera e ingranaggi e icori oleosi che bollivano e scorrevano dentro quei carapaci di metallo dandone vita.
Vernini si sporse dal terrapieno “Stavolta ci sarà da divertirsi davvero” e si toccò le stellette prima di imbracciare il moschetto. Zanetti non rispose e premette il grilletto. Dopo di lui il fronte italiano esplose in furia omicida. Crepitavano incessanti i moschetti, martellavano le mitragliatrici, tuonavano gli obici dalle retrovie.
E le macchine avanzavano incuranti senza timore sotto la pioggia di colpi. Le piastre frontali facevano il loro lavoro deflettendo i proiettili, deviandoli per non far compiere loro il lavoro d’uccidere.
* * *
Al riparo dei marchingegni i plotoni di Standschützen e Kaiserjäger si mossero.
Uscirono a passo di marcia da varchi infossati e protetti da sacchi di terra. Avanzavano protetti dalle macchine, imbracciando il fucile o strani moschetti collegati con cavi e tubi a zaini pressofusi a corazze che ricoprivano il torace.
Non corrono gridando, non cercano ripari. Avanzano e basta.
E’ nel mezzo della terra di nessuno che l’inferno aprì le sue voragini. Gli italiani aumentarono la cadenza di tiro, le granate vengono lanciate da entrambe i fronti, i mortai mobili entrano in azione.
I polipodi a vapore facevano paura. Qualcuno incespicò colpito: s’accasciò, sistemò gli arti mobili e si rialzò.
Quando un colpo di mortaio ne prese uno in pieno, questo esplose fiamme e schegge tutt’attorno. I fanti dietro essa cadderò a terra, prensero fuoco, vennerò dilaniati. Ma non urlavano, non si fermavano quelli rimasti in piedi. Avanzavano altresì avvolti dalle fiamme che ne consumavano le casacche mettendo a nudo la carne arsa unita a piastre di ferro.
Le prime squadre nemiche giunsero a ridosso del filo spinato e decisero di rispondere al fuoco. Partì all’unisono il fuoco degli assaltatori.
Poi anche i congegni si azionarono mettendo in moto valvole e ingranaggi, puntarono le loro canne che vomitarono vampe di fuoco.
Zanetti, investito dal calore, s’appiatti a terra affondando la faccia nell’umida terra.
Cos’è perché così. Le macchine, le fiamme. I soldati nemici? Mai visti cosi! drogati? Ubriachi? Impazziti?
Vernini gli toccò la spalla “oh! Guarda!” la sua voce era spaventata.
Zanetti sporse la testa e guardò ove gli indicava il compagno.
Vide un Landesschütz con il caratteristico berretto tirolese a trenta passi da loro col volto illuminato dai fuochi d’una carcassa di polipode meccanico esploso lì vicino. Il miliziano avanzava contro il filo spinato. Non si curò di scavalcarlo. Ci passò in mezzo, impigliandosi e continuando a spingere e tirare, a lacerare e strappare. Sembra non avvertire il dolore a non capire che di lì non si può passare.
“Cazzo non può essere” Zanetti riconobbe il volto del folle soldato nemico e non se ne capacitava. Non poteva esser vero ma sapeva che era lui, il Sergente Fedròn, lo aveva riconosciuto subito. La faccia era la sua anche se spenta, inespressiva. Morta.
Indossava ora l’uniforme delle milizie tirolesi e imbracciava un fucile Steyr-Mannlicher M1895.
Lo investì una raffica e il suo corpo si contorse prima d’accasciarsi sul filo spinato con gli occhi sbarrati e le gambe che continuavano a muoversi ritmicamente. Dal petto sibilando uscirono sbuffi di vapore.
IV
I sottoufficiali passarono correndo lungo la trincea gridando di prepararsi al contrassalto.
Zanetti non ci credette, non poteva essere possibile. Fedròn era morto, l’aveva visto spezzarsi da un colpo d’artiglieria. Come poteva essere lì, vivo, col nemico.
Vernini estrasse la borraccia e trangugiò un lungo sorso, poi sguainò la baionetta e la innestò sul moschetto. Diede un colpetto sull’elmo di Zanetti “Dai oh, l’hai sentito il Tenente”.
Le Fiat-Revelli battevano più forte per coprire il vuoto dei moschetti che venivano armati per il corpo a corpo.
Ardito, il suono della tromba impartì l’ordine d’assalto.
Il fronte italiano rigurgitò centinaia di uomini in preda a una maniacale follia di terrore.
Zanetti non capiva il perché di tale azione. Perché gettarsi in pasto a un tale nemico? La furia cieca, l’adrenalina che annebbia il cervello e fa compiere gesti insensati. Non si capacitò di come tutti seguissero lo stesso impulso suicida. Anche lui era nel mezzo di quella corsa selvaggia e il nemico era lì davanti che continua ad avanzare.
I lanciafiamme delle macchine si azionarono ancora: urla agonizzanti si levarono fra i boati e i sibili dei proiettili.
Vernini si gettò imprecando contro un marchingegno ma non lo raggiunse perché venne inghiottito da una fiammata. Zanetti non ci badò, non adesso che puntava un Schützen.
Gli si gettò contro affondando la baionetta nel ventre. La lama sprofondò per metà poi incontrò qualcosa di duro che ne fermò la corsa con suono d’acciaio che cozza l’acciaio
La vittima perse la presa sull’arma e con sguardo fisso nel vuoto apriva e chiudeva la bocca senza emettere suoni. Una schiuma verdastra d’un odore di rancido iniziò a fuoriuscire dalla lacerazione. Zanetti estrae la lama con fatica disgustato. L’essere avanti a lui incespicò con le braccia che si contorcevano in forme grottesche, poi il fianco esplose e una nube di fumo scaturì con forza dal varco facendolo cadere a terra mentre continuava a muoversi convulsamente come un lombrico ferito.
Zanetti atterrito restò a guardare senza accorgersi d’esser diventato bersaglio a sua volta. Sentì solo l’improvviso e lancinante dolore alla coscia e al ventre, poi la faccia gli affondò nel fango.
Ebbe solo tempo d’udire il suono d’ ingranaggi e pistoni sopra di lui.
Poi l’oblio dell’oscurità.
V
Una luce bianca accecante offese gli occhi di Zanetti quando questi riprese conoscenza. Gli faceva male tutto ma il freddo del piano metallico su cui era adagiato gli diceva ch’era vivo.
Fitte di dolore dilagavano dal ventre come se decine di aghi gli si fossero conficcati dentro.
Le gambe non le sentiva.
Mosse le braccia ma le sentì costrette il forti lacci di cuoio.
Un conato di vomito lo costrinse di nuovo a fissare il soffitto.
“Italienisch ist wach” esclamò una voce dietro Zanetti
“Italiener sterben hart, so verwenden wir diese” Un’altra voce, soddisfatta, rispose alla prima.
Due volti coperti da occhiali e mascherina appaiono all’infermo. Due uomini vestiti d’un camice bianco, liso e zozzo di sangue e altri liquidi neri e verdastri sembravano parlate con lui, o meglio, di lui. Erano austriaci? Tedeschi? Di certo non italiani, di certo eran nemici.
Zanetti, con sforzo, ruotò la testa a destra e sinistra per vedere dov’era e si rese conto attorno v’erano altri letti come il suo cu cui erano adagiati decine di corpi insanguinati, amputati, feriti, lacerati.
Su ognuno stavano macchine laboriose simili a ragni, fatte d’ingranaggi, di arti collegati da pistoni. Piccole ciminiere mobili dotate di arti da cui sporgevano pinze aghi tenaglie.
Esse lavoravano sui corpi martoriati tagliando cucendo strappando saldando avvitando incuranti dei lamenti strozzati agonizzanti di dolore che i copri dei pazienti lanciavano.
Atterrito e consapevole Zanetti si guardò il ventre.
Un essere meccanico con quattro paia di arti, grande quanto un sorcio, gli zampettava sopra. Pareva stesse saldando un pezzo di lamiera lì dove il soldato era stato colpito. Intorno la carne era fusa e cucita, unita intimamente con la protesi metallica.
“Vorgehen, um die Aktivierung” il medico impartì un ordine al congegno il quale si mosse sulle zampe allentando la cerniera che agganciava quella che sembrava l’apertura d’uno sportello nel ventre artificiale di Zanetti. L’italiano guardava inorridito quell’aberrazione artificiosa lavorare nel suo corpo.
La macchina introdusse un paio di arti all’interno dell’apertura e subito dopo si udì il suono di pistoni in movimento. Zanetti vide del vapore fuoriuscire da una piccola valvola che s’apriva nel suo fianco, poi, un torpore si diffuse nel suo corpo e potè di nuovo muovere le gambe.
“Gut, um die Lobotomie vor“ il dottore sorrise dietro la mascherina poi avvicinò al volto terrificato di Zanetti sussurrando “Wilkommen auf der kaiserliche und königliche Armee”.
Alessandro Allegrucci
Benvenuto in quel fetido luogo di perdizione, fancazzismo, supponenza e presunzione che è la blogsfera! Su, su: riempi pagine e pagine di questo tuo nuovo blog di fucilate, esplosioni, automi, cronache di trasferte celtiche, foto virili di virili rievocatori revisionisti Galli, Greci (beh, quelle un pò meno virili, già...) e Romani e foto nerd di miniature modificate & dipinte! Io sarò fra i tuo lettori fissi!
RispondiEliminamuahauahauaha! ma cerrrto! ho già in mente un raccontino fantascientifico su cui lavorare...
RispondiEliminaBenvenuto, come biglietto da visita non è certo male. Occhio ai typos, non farebbe male una sistematina.
RispondiEliminaGrazie Angelo!
RispondiEliminaPerdona la domanda blasfema ma...cos'è un typos? Non sono uno scrittore e non ho frequentato scuole attinenti quindi certe terminologie mi sfuggono.
Grazie!
Errore di battitura = Typo, è uno di quei pseudo termini anglofoni che stanno entrando in circolazione. Vedo che scrivi parecchio, ho letto anche i due post successivi. Le ambientazioni belliche fanno parte della torta a quello che vedo.
RispondiEliminaAccidenti, grazie del chiarimento e della segnalazione! 'sti erroracci di battitura sono terribili: per quanto mi sforzi di corregerli finisce sempre che ne rimane qualcuno.
RispondiEliminaProvvederò a riguardare attentamente.
Per l'ambientazione...si, diciamo che mi piace l'azione bellica. Detonazioni e smitragliate unite a robot, macchine e affini mi stuzzicano la mente.
Da buon rievocatore del mondo antico mi piacerebbe scrivere anche qualcosa inerente al periodo pre-romano...